Ieri sera canticchiavo a mia figlia l’aria di noto valzer viennese, uno di quelli che la tradizione vuole eseguito come sottofondo mentre si consuma l’opulento pranzo di Capodanno. Uno di quei balletti che amiamo seguire un po’ frastornati dall’ora tarda che ci ha visto coricare la notte prima e già scettici sul superfluo eccesso di zelo con cui il direttore d’orchestra, da lì a breve, condurrà musicisti e pubblico in ghingheri nella marcetta che, al di qua del lombardo-veneto, celebra da un secolo e mezzo una delle débâcle dei Savoia. Le canticchiavo la melodia del valzer imitando per quanto possibile tutti gli strumenti mentre lei, imbracciando la camicia da notte felpata come se fosse un partner da guidare lungo la sequenza di tre movimenti in cui il ritmo si suddivide, simulava la danza in coppia, spinta dal timbro principesco che quel brano, avulso dalle immagini di Kubrick, mantiene inalterato.
E pensare che una riduzione di quel valzer per intrattenimento da balera faceva parte del repertorio standard dell’ultima orchestrina con cui mi sono guadagnato da vivere quando, agli esordi della mia attività professionale che svolgo tutt’ora, uno stipendio non era sufficiente a un’esistenza decorosa in una abitazione dotata di energia elettrica e altre utilities basilari, per intenderci. Ma per onorare gli impegni con gli altri orchestrali avevo dovuto interrompere la collaborazione con una band con cui si era lì lì per “sfondare”, come tutte le band con un contratto major ma trattate dalla major stessa come ultima ruota di un carrozzone poco fruttuoso, per loro. Non avendo più tempo da perdere, decisi per il denaro facile di un impiego tradizionale, con prestazioni da “volgare” musicista da festa in piazza di contorno per arrotondare.
Perché era così che quel mestiere veniva percepito da chi era in grado di permettersi la sussistenza solo con un presente precario e un futuro illusorio di successo ma basato su patrimoni altrui. Ogni compromesso con l’arte commerciale e retribuita sembrava un tradimento alla causa. Tanto che, nel corso di una delle prime esibizioni nella mia nuova veste di musicista folk – diciamo così – colui che teneva redini del gruppo da cui avevo dato le dimissioni, non capacitandosi di una scelta così lacerante per il proprio orgoglio, fece capolino tra il cerchio di anziani timidi raccolti intorno alla pista a seguire invidiosi la sfrontatezza dei loro coetanei, lanciati in evoluzioni lungo l’area dedicata al ballo, sottostante il palco. Le note erano quelle di Strauss, il tema eseguito con una sezione di archi campionata e riprodotta da un dispositivo molto in voga tra i tastieristi all’epoca. E ricordo il gesto delle sue dita a forbice sul secondo e terzo tempo di quel ritmo cadenzato, a sottilineare che la versione ufficiale del mio commiato, di cui lui e i miei ex soci si erano convinti e avevano divulgato, era che io ero stato “tagliato” fuori da loro, e che l’onta della preferenza accordata al ballo liscio non sarebbe mai stata più lavata.
Il brano volge al termine, la mia voce produce un rallentamento e una chiusura inesistente nella versione originale, ma ormai è tardi e bisogna mettersi a nanna. La camicia da notte, quella con il gufo disegnato sul petto, trova la sua giusta collocazione e ci mettiamo tutti ai nostri posti, pronti a lasciar libera la testa a quello che ci pare. Io mi sto per raccontare una nuova storia che, fino a pochi minuti prima, avevo rimosso, chissà perché.
quando tutto pare filare liscio…
anche solo per tre quarti