Se avete qualche reminiscenza di latino, ricorderete che l’etimologia di negotium deriva dalla netta contrapposizione all’otium, ovvero la sua assenza. Il riposo dedicato al tempo libero e alla cura individuale rispetto all’impegno per lo stato e la cosa pubblica. Pensate un po’ che livello di civiltà, altro che. Ma, in senso lato, il riposo e l’attività sono tuttora due momenti ben distinti. Quando c’è uno non c’è l’altro, è impossibile la compresenza. O no? Un paio di agenzie fa non erano così rare le notti in ufficio per arrivare puntuali con la consegna il mattino dopo, l’otium era relegato a un paio di ore sdraiato sul divano comune, quello su cui dormivano a turno tutti quelli del team che erano sul pezzo verso la deadline a rischio. Il mio record personale? Ingresso in ufficio lunedì mattina alle 9.00, uscita il mercoledì mattina alle 6.30, quasi 48 ore filate a macinare codice senza interruzione, senza un’ora di sonno, giuro. E nemmeno nei più contorti cicli, nelle funzioni più complesse, mai, dico, mai ho avuto il minimo cedimento. Working class hero. Altri tempi, altro fisico, altra economia, altro contesto produttivo.
Ci sono stati invece casi opposti in cui l’otium ha preso prepotentemente il comando di me, la rivincita del corpo che pretende di essere lasciato in pace e lo lascia subentrare al negotium, ma senza avvertire nessuno. Che non è bello. Una volta in ufficio, questo agli albori della mia fulgida carriera professionale, sedevo su una poltrona molto comoda, troppo, e bastava scendere di poco giù che si poteva appoggiare la nuca. Ricordo perfettamente quel giorno, un panino con la cotoletta di troppo è stato fatale. E pensare che ero lì da poco, per arrotondare suonavo il liscio alla sera nelle balere e la mattina facevo la storia della multimedialità. Ma, non appena calate le palpebre e sceso nel torpore dell’incoscienza narcolettica, mi sorprese il mio capo-progetto che non si premurò di evitarmi la figuraccia di fronte a quel manipolo di ingegneri che già si facevano beffe di me per il modo bizzarro con cui nominavo le variabili. E meno male che non ho russato.
Potrebbe andare peggio? Sì, in attesa di incontrare un cliente per una presentazione. Ma sentite: più di venti minuti di attesa dell’amministratore delegato in sala riunioni, da solo. Fuori il buio del tardo pomeriggio del venerdì, cullato dal rumore delle rotelle dei trolley dei pendolari settimanali che si avviano lieti e pensosi verso casa, la vera casa. Dentro, il ronzio del riscaldamento, gli occhi annoiati dall’arredamento discutibile di contorno, e io che aspetto, aspetto, asp… zzzzzzzzzzzz. Mi sorprende un rumore di maniglia che si gira e un “buonasera!” virile, io che balzo in piedi nemmeno fosse entrato il colonnello e io fossi un soldato semplice con la coscienza sporca. Si tratta di un attimo, quando apro gli occhi e lui voltato a chiudere la porta. Questa volta l’ho scampata davvero per un pelo. Peccato però, stavo sognando, non ricordo cosa, ma era molto, molto rilassante.