Sono invece (invece si riferisce al mio precedente post) d’accordo con Giovanna Cosenza, che a sua volta si trova d’accordo con Wu Ming 1, con cui per la proprietà transitiva mi trovo in linea anche io. In pratica,
Il format dello «scendere in piazza» non è solo logoro. Il problema non è solo la mancanza di creatività. Il problema è che la piazza che abbiamo visto ieri non serve affatto a realizzare gli obiettivi di chi era lì (violento o non violento che fosse), e men che meno serve a realizzare le migliori intenzioni di chi è andato a Roma con la migliore consapevolezza e coscienza critica del mondo. Serve, al contrario, a rinforzare la voglia di non partecipare, non costruire, non fare. Detto in altri termini: serve a rinforzare le spinte alle conservazione di tutta l’attuale classe politica e il consenso al governo in carica.
Un tema ricorrente, spinoso e vecchio quanto la storia repubblicana. La piazza potrebbe funzionare ma solo sull’obiettivo prossimo, e sono convinto che se vi fosse un obiettivo a portata di mano la piazza non si mobiliterebbe, perché lo scontro sarebbe diretto e non contro un simulacro di potere. Sono certo che oggi il motivo più efficace per manifestare il dissenso e sottrarsi al logorìo della consuetudine anarcoide e griffata – che a nulla porta se non all’onanismo sfascista e globalizzato – sia sorprendere il nemico con una strategia locale. Iscriversi a un partito, fare politica sul territorio, aderire a comitati, partecipare a commissioni di controllo, in estate cucinare salamelle. Il format consiste nel rovesciare il potere impadronendocene dal basso. Convincendo gente sul posto, vincendo elezioni amministrative e, da lì, politiche. Sarebbe una cosa mai vista, no? Lasceremmo finalmente l’opinione pubblica a bocca aperta, le banche sono un di cui.