“Quali differenze ritiene che ci siano tra l’essere giovane quando frequentava le scuole superiori e l’essere giovane oggi?”. Una delle ragazzine più spigliate ha comunque preferito leggere la domanda tutta d’un fiato scritta a penna in un quaderno a spirale. Tra me e lei, il suo compagno di classe reggeva la fotocamera digitale, e a me veniva voglia di vedere come stava facendo l’inquadratura, una deformazione professionale. Chi fa le domande è alla tua destra, chi risponde alla tua sinistra, quindi il mio faccione in teoria dovrebbe occupare la metà a sinistra del display. Ma meglio non indagare. Non capita tutti i giorni di essere scelto da un gruppetto di liceali per un’intervista sui cambiamenti della società tra la generazione dei loro genitori e i sedicenni di adesso. In effetti potrei essere padre di un sedicenne anziché di una ottenne, ma non è qui che volevo arrivare.
Si sa, parlare di se stessi fa sempre piacere, addirittura ci sono folli affetti da egotismo che passano ore a scrivere i propri pensierini e a pubblicarli on line nella speranza che qualcuno li legga. Quindi quando il gruppo di ragazzi mi ha fermato in pausa pranzo per chiedermi se avevo tempo e voglia di prestarmi alle loro attenzioni, ho fatto finta di schermirmi e poi ho accettato, strappando la promessa di vedere il lavoro finale in cambio di un biglietto da visita. L’intervista è durata una ventina di minuti e non sto qui a raccontarvela. L’ultima domanda però è stata decisiva. “Pensa che le nuove generazioni siano in grado di occupare posti di potere, di responsabilità, di valore e utilità pubblica in futuro, come le precedenti?”. A quel punto ho passato in rassegna quel campione rappresentativo delle nuove generazioni, tenendo conto che si trattava di un pugno di compagni di classe di un liceo del centro di Milano. Li ho guardati a uno a uno, e spero che nel montaggio finale quel mio screening non venga tagliato, perché si tratta di un silenzio che prelude perfettamente a quanto ho risposto dopo. Me li sono immaginati medico, giudice, macchinista ferroviere, insegnante, meccanico, manutentore di aeroplani di linea. Me li sono figurati un po’ invecchiati nelle stanze dei bottoni. Magari impegnati in una campagna elettorale, e io e mia moglie (mia figlia no perché andrà a studiare e a lavorare all’estero) con la scheda in mano, mentre riflettiamo sul nome da scrivere, uno dei loro. Ho pensato a loro intenti a svolgere un’attività di responsabilità, e stavo per dare una delle risposte più negative della gamma delle risposte negative possibili del nostro linguaggio. Ma la colpa non è la loro, ma dei loro genitori, che sono più o meno miei coetanei. Quindi anche mia. “No”, ho risposto, “ma non perché non sarete all’altezza, piuttosto perché non ce ne sarà più bisogno”.
Lo so. Non vuole dire un cazzo, è stato un capolavoro di nonsense, una frase che non so come sia riuscito a partorire, in quel panico da prestazione misto alla paura di deludere il mio nuovo pubblico. Mi hanno sorriso tutti, come se avessi rivelato il vincitore del prossimo festival di Sanremo. Il ragazzo con la fotocamera ha ripreso ancora un po’, prima di spegnere, in modo da dare un peso dopo la risposta sufficiente a bilanciare quella pausa riflessiva che ha preceduto la mia esternazione. Se fossi ancora un fumatore, a quel punto avrei tirato fuori un pizzico di Old Holborn giallo, l’avrei avvolto in una cartina Ocb, rollando con perizia. Quindi avrei chiesto da accendere e me sarei andato, probabilmente su un pezzo così.
Oh, fantastico!
La tua frase non so come interpretarla.
Interpretazione pessimista: non ce ne sarà bisogno perché, peggio di adesso, i posti di rilievo saranno tutti occupati da gente che, per prendere la pensione, si farà cremare direttamente con la poltrona dell’ufficio attaccata al culo.
Interpretazione catastrofica: non ce ne sarà bisogno perché l’hanno detto anche i Maya.
Buon week-end! 😉
brava Claudia, bel suggerimento, e secondo me è più diplomatica la seconda