Non sono molti i dischi che mi piacciono per intero, intendo l’ascolto in sequenza di tutti i pezzi. Magari c’è quella canzone che mi annoia o che mi disturba, ma la lascio lo stesso perché sentire dall’inizio alla fine un album è un segno di rispetto per il gruppo o l’artista. La tracklist ha un senso e i pezzi devono essere ascoltati solo in quella direzione, ognuno a suo modo prepara il successivo, altrimenti il concept sarebbe stato pensato diversamente. Una visione un po’ integralista alla musica, direte voi, ma che ha un suo perché che può sfuggire considerando l’odierno approccio random su migliaia di pezzi, con l’effetto Virgin Radio che ne deriva, che lo ha reso superato. D’altronde l’aver messo in discussione il supporto e il mezzo stesso di contenimento del prodotto musicale ha completamente cambiato le carte in tavola.
“The head on the door”, come sapete, è l’ellepi dei The Cure che ha aperto la strada del successo pop alla band di Robert Smith. Non a caso i puristi al massimo arrivano a The Top, l’album precedente. Addirittura c’è chi si limita al solo periodo new wave del gruppo inglese, dagli esordi alla triade che si chiude con Pornography. Io non la penso così. “The head on the door” è un album che ha costituito la colonna sonora del mio primo vero upgrade, perdonatemi il termine, una serie di pezzi piuttosto facili considerando la categoria di appartenenza del gruppo in questione, che però hanno la rara caratteristica di rappresentare tutta la gamma degli umori, tutta la scala degli stati d’animo ciascuno con il suo ph, dal più depresso al più frizzante. Se non siete d’accordo, almeno provate a vederlo, anzi, ad ascoltarlo con le orecchie di un diciottenne. Ma bollori adolescienziali a parte, almeno ne si riconosca la straordinaria varietà di atmosfere, dal fill di batteria di “In between days” fino al delay con cui si inabissa “Sinking”, nel ronzio di un ascolto a volume smodato. Insomma, non c’è un solo pezzo che stona, non credo di averne mai saltato uno né in quel 1985 né ora, mentre sta per iniziare il riff di “Push” in questa seduta di ascolto pomeridiano. Un disco da meditazione, come quei liquori da gustare nei bicchieri appropriati, sufficientemente larghi da inalarne lo spirito. Un suono da notte in autostrada, da solo sulla strada del ritorno. E una manciata di canzoni da guardarsi in faccia e sorridersi, perché abbiamo capito che cosa è stato inutile dirsi.
Post Scriptum: prima di acquistare il disco, un caro amico me ne fece una copia su cassetta, gli ellepi costavano non poco e un ascolto preliminare all’investimento era d’obbligo. Ma il suo disco saltava su “A night like this”, quindi omise la traccia otto dalla registrazione senza avvertirmi. Ho consumato quella cassetta convinto che tra “Close to me” e “Screw” non ci fosse nulla. Oggi credo che “A night like this” sia una delle canzoni più belle dell’album, spero converrete con me. Allora non andò proprio così, anzi rimasi interdetto: un solo di sax in un pezzo dei Cure, che sacrilegio!