L’ultimo giorno di lavoro di un collega lo si riconosce subito, alle nove del mattino appena si arriva in ufficio, perché non è un giorno come tutti gli altri.
Se è il collega ad aver dato le dimissioni perché cambia lavoro, quindi si presume vada a stare meglio, leggi la speranza nei suoi occhi, lo vedi pronto al passo successivo, quello che nessuno conosce. Cambiare società, si sa, è comunque una sfida da cui si può tornare vincitori ma anche no, e lo sguardo di chi ci lascia volente, e ha dato il preavviso trenta giorni prima, è un misto di paura, gioia e nostalgia. Ma tutto sommato è uno sguardo giovane, non saprei come definirlo meglio, un po’ perché sono giovani quelli che riescono a cambiare in meglio, un po’ perché forse il panico ti fa gonfiare il petto per istinto di sopravvivenza, come gli animali che si preparano al combattimento, e la forza negli occhi ti conferisce quell’aspetto che si ha da ragazzi boriosi. E anche perché tutti ti invidiano. Per chi è felice di varcare l’ultima volta da collaboratore fisso (stavo per dire dipendente ma poi mi sono accorto dell’anacronismo) l’uscita giù al piano terra per addentrarsi da solo – o almeno non con noi – nel suo futuro, l’ultimo giorno d lavoro è già un giorno di festa, lo coccoliamo, qualche battuta, si va a pranzo insieme l’ultima volta da colleghi. Poi nel pomeriggio ci riuniamo tutti qui nel mio ufficio, che si chiama lo stanzone perché è la stanza più grande, e con un scusa lo facciamo venire qui e gli consegniamo un regalo, comprato grazie a una colletta. Il biglietto è quello dei commiati, felicitazioni per la tua nuova carriera. Poi, un paio di ore prima dell’orario normale di uscita, preceduto da una sua email più o meno di circostanze, il collega fa il giro, mi raccomando sentiamoci, vi ho lasciato l’indirizzo privato di posta, sì ma sarò qui vicino quindi possiamo pranzare insieme di tanto in tanto, e cordiali saluti. Chi era più legato continua l’amicizia parallela fuori di qui, e avanti il prossimo. Il nostro capo non si fa mai vedere in queste occasioni, forse stizzito del fatto che non è riuscito a trattenere la risorsa, e con una scusa o un’altra si astiene dai saluti finali.
La variante, come potete immaginare, è il collega a cui non è stato rinnovato il contratto ed è stato licenziato. E anche in questo caso, lo riconosci subito che non è un giorno come gli altri. Siamo tutti un po’ in colpa, noi abbiamo ancora un lavoro e tu no ma se fossi nei nostri panni saresti imbarazzato anche tu ma per fortuna che non ci sei perché in tal caso saremmo noi quelli ad aver perso il posto di lavoro, dicono i nostri occhi. Rispetto al dimissionario, il licenziato è ovviamente meno speranzoso e più preoccupato, da domani avrà giornate intere per sfogliare annunci di lavoro, i link sui quali ti posizioni con la freccetta del mouse e ti compare già in anteprima il range di salario: rimborso spese, meno di quattrocento euro, da quattro a ottocento euro. E le dinamiche con gli altri sono diverse. Il rancore lo spinge a consumare l’ultimo pasto con i colleghi più stretti, ma non per questo non ci preoccupiamo di salutarlo con una colletta per un pensiero. Nel biglietto non si sa cosa scrivere, il lupo è tirato in ballo dai meno originali, poi qualcuno sdrammatizza e fa il simpatico. Segue mail a tutti, è stato bello lavorare con voi, poi il giro di saluti di rito e il collega si invola appeso a un enorme punto interrogativo aerostatico, lo salutiamo dalla finestra mentre prende quota, aggrappato a quello che per il momento è il suo futuro, la sua unica certezza. Nessuno sa dove sia diretto. Quando sparisce dietro al palazzo di fronte, si torna tutti alla scrivania. Ah, il nostro capo non si fa mai vedere in queste occasioni, forse imbarazzato del fatto che ha dovuto lasciare a casa la risorsa, e con una scusa o un’altra si astiene dai saluti finali.
Il solito grande post