Capita che ogni tanto qualcuno mi chiami dottore. Al telefono, quelle (rare) telefonate di sconosciuti, telefonate di lavoro, che iniziano con “è il dottor 1gmt”? (con il mio vero cognome, naturalmente, che ometto per motivi di privacy anche se so che i miei venticinque lettori conoscono benissimo le mie generalità, ma meglio non correre rischi). Oppure quando cercano del “dottor Plus” (idem come sopra, con il mio nome). O ancora quando arrivano le e-mail, il cui incipit “Gentilissimo” seguito dalla carica mi scatena una bontà infinita, voglia di cordialità in corsia e di favori gratuiti al prossimo degente, mi vedo elargire pacchi dono a una fila di bambini in ospedale, la vigilia di Natale. E resto attonito, immagino me in camice bianco, lo stetoscopio che penzola dal collo. La colpa è che nell’ambiente business un po’ attempato si tiene molto al titolo professionale. Il novantanove per cento è Ingegnere, per il resto meglio non rischiare: signori, con la esse minuscola, lo siamo un po’ tutti. E con i clienti se chiami “Dottore!” non significa che ci sia un’emergenza, tutt’al più hai mirato troppo in alto, ma il destinatario, ringalluzzito, non ti correggerà al ribasso, col rischio di essere confuso per un ausiliario. Un dottore è sempre un dottore, “Megu megun” diceva il poeta. Mentre il mio titolo, inqualificabile quanto squalificante, non è così autorevole. Nessuna cura, nessuna visita, nessuna ricetta: scrivere non è prescrivere.
Troppi dottori e pochi Signori…
e poi, a che titolo…