Anche se sto dormendo me ne accorgo, perché il giorno dopo ricordo quasi sempre tutto. Il ritmo della causa scatenante che aumenta, il desiderio di liberazione che matura, la preparazione del verso, una sorta di riscaldamento piuttosto agitato, quindi spalanco la bocca e il grido esce, con intensità variabile a seconda proprio della sequenza delle fasi, che funziona più o meno come quando lanci un elastico, che più lo carichi tirandolo verso di te e più lui vola in avanti. A quel punto il danno è fatto, e nel silenzio della notte riecheggia l’urlo o la parola con cui si sancisce il dominio della tensione dell’inconscio in azione sul conscio dormiente. Le cause scatenanti sono varie, dipendono da stress, stanchezza, quantità, qualità e pesantezza della cena. Ma anche un letto posizionato diversamente o il totale delle ore di sonno macinate, paradossalmente più dormo e maggiore è il rischio. Dietro c’è comunque sempre un incubo di varia natura: la casa di campagna dei nonni, isolata e desueta, l’uragano che vuole entrare dalla finestra, i nazisti che mi fucilano o mi puntano la rivoltella alla tempia e poi sparano, la sensazione di soffocamento mentre cerco di nascere dal corpo di mia mamma, e una più banale manifestazione di conoscenti morti che mi vengono a salutare nel sogno e che non mi lasciano mai nemmeno un pronostico per mettere al sicuro la mia vecchiaia, ma forse lì l’urlo è uno sbotto per l’occasione sprecata. Mia moglie a volte riesce ad accorgersi che sono lì lì per svegliare tutto il condominio, e cerca di farmi riprendere conoscenza in tempo. Ma spesso ce ne rendiamo conto a danno compiuto, ho gridato ancora nel sonno? Qualche secondo, mi giro dall’altra parte e riprendo a dormire. Mi alzo a bere un bicchiere d’acqua o a fare pipì. Accendo la luce e cerco di calmarmi. La mattina dopo ci scherziamo su, la pizza con le acciughe o i peperoni, sì, anche questa volta, devo ricordarmi di prendere qualcos’altro. Ma entrambi sappiamo benissimo che non è quello, per lo meno non è solo quello.