Sotto l’ufficio di S., al piano terra, c’è una di quelle agenzie duepuntozero molto gheddaun e hipster, peraltro in attività da una decina d’anni, questo a prova che l’essere gheddaun e hipster nel mondo della creatività e della comunicazione digitale è comunque un sistema di sopravvivenza. E molto probabilmente non si tratta di gheddaunness e hipstership (dio mio, ma come sto scrivendo?) omologate, ma di una vera e propria alternativa al mood alternativo. Sapete, comunque, di cosa S. sta parlando. Open space, distesa di mele con il computer intorno, cataste di Wired in abbonamento all’ingresso e via dicendo. Caratteristiche estetiche che, spesso, nella sostanza distraggono il prospect dall’alto turn over e dai contratti stilati con inchiostro simpatico a gggiovani collaboratori e stagisti, con lauree brevissime in tutto quanto fa comunicazione.
L’organigramma, sono parole di S., è una cascata di geek e indie e indie/geek con qualche rara voce fuori dal coro: il rasta che non fa pausa sigaretta perché fa pausa canna, il nerd programmatore che appena può si sistema in Accenture e via dicendo. In questo scenario, S. mi racconta di una ragazza di cui non conosce il nome – chiamiamola E. – con cui si incrocia ogni mattina nell’androne. E., da qualche mese, è in forza all’agenzia gheddaun e hipster. S. entra infreddolito (siamo in inverno) e chiama l’ascensore, la cui porta si trova a fianco dell’ingresso dell’agenzia gheddaun e hipster. Canticchia, fischietta o, è lui a confessarmelo, a volte borbotta da solo (questo è il risultato di 15 anni di esperienza nel campo dei new media, trecentosessantacinque giorni l’anno a confrontarsi solo e unicamente con intelligenze artificiali. Parlare da soli è una delle più comuni conseguenze: è profondamente ingiusto biasimare i creativi).
Poi avverte la presenza e si gira. Sdraiata sul muretto, sotto la finestrona che dà sul cortile, c’è lei: E. Un concentrato di tutto quello a cui puoi associare il concetto di agenzie geddaun, ovvero (dall’alto verso il basso): taglio a caschetto con ciuffone tendente all’emo, auricolari conficcati nelle orecchie tra lobi ricolmi di anellini i cui cavi portano a i-phone di ordinanza tra pollici in continuo fermento (skippare brani dalla playlist, rispondere a messaggi e commentare commenti degli amici su FB) e che talvolta lascia il posto a un libro, giacca blu scuro con spillette di gruppi inesistenti, foulard, pantalone stretto sulle caviglie e all-star pelose e nere. Età: tra i venti e trenta.
Cosa ci fa la nostra indie-girl alle otto e quarantacinque del mattino, in un portone della city? Aspetta che l’agenzia gheddaun e hipster apra i battenti, non prima delle nove se non nove e trenta. Si, avete letto bene. I soci dell’agenzia, probabilmente gli unici ad avere a disposizione le chiavi e il codice dell’allarme, entrano con la dovuta calma. Magari stanno facendo colazione al bar delle modelle, all’angolo, e se ne fottono. La nostra E., proveniendo da chissà dove con chissà quale treno a chissà quale ora in chissà quale stazione, non ha scampo: quella è l’unica ora utile a cui arrivare per non rischiare il ritardo. E, in modo intelligente, anziché guardare nel vuoto, consumare il proprio rimborso spese nei bar del centro o respirare smog fresco di giornata passeggiando in circonvallazione, ha fatto dell’androne il suo riparo temporaneo prima di immolarsi al marketing digitale.
Il pippotto di S., spropositamente lungo, lascia trapelare un po’ di tenerezza verso quella giovane adulta costretta a prolungare la propria adolescenza oltre i livelli di guardia a causa della peggiore situazione economica del dopoguerra, che ha lasciato l’imprenditoria in mano a una generazione di fanfaroni. Perché S. è certo che tra qualche mese, quando ineluttabile sorgerà il sole sul giorno della scadenza del suo contratto farlocco firmato da ambe le parti con l’inchiostro simpatico di cui sopra, E. tornerà nel suo cyberspazio fatto di newsletter di offerte di lavoro, lavorifighipuntocom e così via. A nulla sarà valso quel sacrificio, il dedicare quotidianamente ore della sua vita in quell’anticamera della produttività senza un mazzo di chiavi utile ad anticipare la sua giornata lavorativa, di conseguenza la fine della stessa, di conseguenza il ritorno a casa, di conseguenza a vivere la sua vita privata decorosamente.
Ho suggerito a S. così di costituire un club di solidarietà, tutti i creativi e i web designer e i flash developer e gli art director e gli online strategist e i video producer e i social media content manager uniti, se occorre mi rendo disponibile in prima persona per un dj set visto che i copy sono più che ridondanti, alle otto e quaranticinque con tè caldo e biscotti nell’androne di quel palazzo anni cinquanta, ad aspettare i soci proprietari dell’agenzia hipster-gheddaun. Una sorta di flash mob contro chi, dei flash mob, si riempe la bocca e i powerpoint e cerca di venderli alle multinazionali. E dàtele un mazzo di chiavi, che diamine. Barboni.
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