st(r)age di innocenti

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Giovanna Cosenza, sul suo eccellente blog, ha pubblicato una lettera e ha sviluppato un thread relativo al malcostume degli stage nelle (o almeno in alcune, ma io direi maggior parte) aziende italiane. Nello specifico si tratta di agenzie di comunicazione. Io e S., grafico riciclatosi geniale sviluppatore Flash, siamo ex colleghi, reduci da una esse-erre-elle gonfiatasi in piena bolla Internet e poi esplosa, con un sofferto ma rapido decorso fatto di stipendi sempre più in ritardo, sino al fallimento e liquidazione nel 2002, con contorno di avvocati e sindacati. Questo non c’entra (o c’entra solo in parte) ma è solo per introdurre alcuni spunti inerenti il post a cui ho fatto riferimento, emersi durante una chat, proprio ieri in pausa pranzo.

S. ora lavora in una  agenzia di comunicazione, qui a Milano, che ha fatto dello stage o del tirocinio la sua filosofia. Dice S. che “nel corso degli ultimi anni, l’azienda ha incarnato perfettamente il mood della crisi, lamentando ristrettezze economiche e lagnando costi inutili. A giustificazione di ciò, ha iniziato a tagliare il superluo e il necessario, soprattutto in ambito risorse umane“. Fatto sta che l’agenzia in cui lavora S. sfrutta la formula dello stage come principale fonte di approvvigionamento per le collaborazioni professionali. “In realtà il lavoro è diminuito solo parzialmente, ma non sono stati rinnovati i contratti a progetto, e ora siamo la metà di prima con, più o meno, la stessa mole di attività. Il risultato è che siamo tutti costantemente straincasinati e non abbiamo un minuto di respiro“.

Ma l’agenzia di S. sembra avere trovato la soluzione: è sufficiente mettere un annuncio sul sito lavorifighi.com di turno per uno stage ed ecco fioccare – là fuori c’è una disoccupazione mai vista, sia chiaro – decine e centinaia di curriculum di persone anche con esperienza ma pronte a immolarsi gratuitamente alla vision aziendale. Il risultato è che in un paio di anni sono passati almeno 8 ragazzi/e diverse in varie mansioni a occuparsi delle cose più disparate, e l’agenzia non ci ha rimesso una lira in stipendi o rimborsi. Gli stagisti, ovviamente, non hanno imparato nulla: nessuno, in agenzia, ha il tempo per seguirli nel loro processo di assimilazione degli skill aziendali, d’altro lato a loro è richiesto di saper inserirsi nel delirio della produzione da subito, vengono loro attribute responsabilità inammissibili in teoria, dopo 3-6-12 mesi i cordiali saluti di rito, come direbbe Andrea Bajani. “La cosa più assurda è che ci si può permettere di avere tutto personale di alto profilo anche per i lavori meno qualificata. Voglio dire, non è che se siamo un’agenzia di comunicazione la nostra receptionist debba essere laureata in Scienze della comunicazione, giusto?“. Invece, anche lì, come nel post pubblicato su Disambiguando, arrivano laureati  a ricoprire le mansioni più varie. “Sia chiaro: se ti ricordi, quando abbiamo iniziato noi” (15 anni fa) “all’inizio abbiamo fatto la cosiddetta gavetta pur essendo laureati anche noi, ma era collaterale ad attività più specifiche del lavoro per il quale eravamo stati ingaggiati. Ricordo di ore passate al telefono a fare telemarketing per cercare nuovi clienti, ma poi tu scrivevi e io disegnavo cd-rom, ai tempi“. E l’aspetto più sconcertante, in un sistema che sta diventando sempre più dog-eat-dog, è che S. ha perso la pazienza. “So che non dovrei, ma non li reggo più. Voglio dire, loro non hanno colpa. Ma l’agenzia mi chiede di fare conto su di loro per avere supporto nel mio lavoro. Accade però raramente di trovare persone già in grado di operare autonomamente, quindi mi tocca fare sia il mio che il loro lavoro, poi mi sento in colpa e cerco di seguirli, ma inizio a non avere più energia da questo punto di vista“. Insomma, l’esasperazione fa scoppiare la guerra tra i più deboli, il risultato è il chiudersi in un istintivo individualismo sul quale è possibile, come la storia – sia quella raccontata su Disambiguando che quella con la esse maiuscola – ci insegna, mantenere un migliore e più fruttuoso controllo.

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