area c

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Con il solito gesto ho invitato il pubblico a smorzare gli applausi al termine della mia performance, cosa che faccio sempre – giunti alla replica numero 1541 del mio monologo dovreste saperlo – per ringraziare tutti e per sottolineare proprio che quella a cui avevano appena assistito era la replica numero 1541 del mio monologo, ma questa volta mi sono superato. Ho puntato l’indice verso il signore anziano seduto nella fila D, posto 21, l’ho guardato nel modo in cui si scrutano gli spettatori durante la recitazione ma, a differenza del non-messaggio che trasmetto durante lo spettacolo, ho parlato e gli ho detto che mi ero accorto che, a nemmeno una ventina di minuti dall’inizio, aveva subito un colpo di sonno. Nella fila davanti a lui sedevano un gruppetto di colleghi – gente che paga fior di quattrini per i corsi di teatro e che viene ai miei spettacoli per imparare qualcosa di più – e poco più indietro ho riconosciuto quella bella signora alta con i capelli rossi, quella che poco prima che si spegnessero le luci raccontava l’esperienza della figlia alla scuola di musica, l’entusiasmo delle lezioni di esecuzione di insieme e il divertimento di vederla suonare in prova un improbabile adattamento per ragazzini alle prime armi di “Acida” dei Prozac+. Un replica apparentemente di ordinaria amministrazione: le luci si sono spente, si è spalancato il sipario, i fari sulla sedia nera, unico arredo di scena, e poi il mio corpo, la mia voce, i miei sguardi, i miei movimenti. Questa volta, con una variante: quel vecchio vestito male, in mezzo ai soliti abbonati dell’area C, a cui è crollata la testa in avanti proprio mentre mi trovavo alle prese del passaggio più drammatico, quello della morte di Lisetta. Il brivido si è irradiato lungo la platea proprio come quella volta in cui ho visto l’onda del terremoto attraversare il lato lungo del living rettangolare dell’appartamento in cui ho abitato tanto tempo fa. La scossa si è propagata, nell’ordine, dalla porta del balcone al tavolo della cucina, poi ha attraversato me – ero seduto al computer, tanto per cambiare – e quindi si è dileguata verso la casa dei vicini. Così, a spettacolo concluso e applausi scemati, quel vecchio si è avvicinato all’orecchio della signora che sedeva al suo fianco – sua moglie? – e l’ho sentito, è stato sufficiente il labiale, sussurrare qualcosa che aveva a che fare con la quarta parete e una commedia di Plauto al liceo, quando uno dei protagonisti aveva fermato lo spettacolo per lamentarsi del chiasso che quel gruppetto di deficienti ignoranti bifolchi conciati come i Cure stavano facendo. “Stiamo lavorando”, il soldato fanfarone aveva gridato dal palcoscenico, “meritiamo più rispetto”.

un po’ di male nel bene e viceversa

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La mamma di Nicholas sfoggia lunghissime e vistose unghie a colori alternati: bianche con inserti tondi neri e nere con inserti tondi bianchi. Una scelta che sarà simbolo di armonia ed equilibrio tra le dualità dell’universo, nonché di interazione tra le energie antitetiche, quella positiva contro quella negativa e passiva, ma che al lato pratico le crea enormi difficoltà nel digitare la nuova password del suo account Google scolastico e dimostrarmi che c’è qualcosa nel suo smartphone che non va, d’altronde touchscreen e onicotecnica da sempre non sono compatibili. L’impatto tra le due forze si manifesta comunque sul tempo extra non pagato in cui devo fermarmi a scuola per quel tipo di assistenza tecnologica, così un po’ invidioso del suo telefono da mille e passa euro (un mese del mio stipendio) mi limito a suggerirle, la prossima volta, di acquistare un Android.

Non aggiungo che la resilienza di cui ci riempiamo la bocca e che va tanto di moda, vista da vicino, è un disvalore, una posa che ci impedisce di agire la vera rottura che poi è il break-even point in cui mandiamo affanculo tutto e tutti, ma in questi tempi di sovranismi non è il caso. I genitori che ci vengono a incontrare in prima sono comunque molto carini e ingenui. Chiedono più compiti – con figli in alcuni casi di nemmeno sei anni – e li crescono a merende bio in confezioni che si aprono solo con le forbici. L’intervallo lo perdo a tentare di strappare materiale di nuova generazione, probabilmente alieno, così dirotto quei mocciosi, a cui ancora un paio di anni all’infanzia avrebbero fatto più che bene, all’impiego del materiale scolastico di cui sono dotati. E non è tanto il problema che non sanno allacciarsi le scarpe, che si mettono i piumini al contrario, che non riescono a chiudere le zip, che non hanno forza sufficiente nelle mani per stringere il meccanismo che libera le fibbie degli zaini. È che qualcuno se la fa addosso, nel senso della cacca.

Nel migliore dei casi nei pantaloni in classe, nel peggiore cercando di risolvere l’impasse in bagno, perché poi sono cazzi delle collaboratrici sistemare le cose, e se si rifiutano potete stampare come ho fatto io la pagina del CCNL e evidenziare in rosa il passaggio in cui, non è scritto proprio così, spetta a loro prestare assistenza in queste situazioni di merda. Quando invece capita durante la lezione colgo immediatamente le avvisaglie di ciò che sta accadendo e mi blocco, talvolta sul più bello di un intervento appassionante, talaltra nel corso di una spiegazione di quelle che sono certo faranno la storia e che i miei alunni si porteranno dentro, per sempre, nella vita. Tutto ciò che mi circonda svanisce. I bambini, la LIM accesa, la collega di sostegno, i banchi, le pale sul soffitto. Tutto ciò che mi circonda svanisce, guardo nel nulla come certi ACD che hanno l’interruttore on/off. Mi spengo mentre la realtà continua il suo corso, cado in trance e penso: che cosa ci faccio io qui?

amici di scuola

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La cassiera dell’Esselunga che mi ha servito mi ha confidato che l’anziano dimesso che mi si è avvicinato mentre infilavo la spesa nelle borse è una vecchia conoscenza del supermercato. Abita nei pressi, viene a piedi – e, visto il suo stato confusionale, meno male – e gli piace pontificare con i suoi coetanei, ed è per quello che ieri ha scelto me. Il tema dei monologhi si riconduce a un thread consolidato, un classico della letteratura da bar, ma il suo discutibile senso della realtà lo porta a mettere in relazione due aspetti antitetici: l’evasione fiscale che genera lo squilibrio di contribuzione alla spesa pubblica tra chi paga tutte le tasse e chi no, con i comunisti americani che dovrebbero prenderselo nel culo tutti perché pretendono di controllare nelle tasche della gente che poi, appunto, vota Trump, con l’aggravante dell’auto-dichiarazione delle proprie origini meridionali, come se l’accento – e l’ubicazione stessa del supermercato, un quartiere periferico costruito per favorire l’accoglienza dell’immigrazione dal sud negli anni 60 e 70 – impedisse di capirlo. A me basta che la coppia di albanesi che mi ha preceduto alla cassa, probabilmente ancora priva di figli in età scolare, mi abbia regalato i buoni ottenuti grazie a un budget ampiamente al di sopra della mia portata. Mi hanno lanciato uno sguardo di intesa, caricando il loro carrello pieno di prodotti industriali, e non c’è nemmeno stato il bisogno di chiedermelo. Ho detto che faccio l’insegnante e con i buoni della campagna “Amici di scuola” ci compriamo i computer.

Un bel mazzetto, che poi ho unito a miei, molti meno. Al “terronazzo” – è stato lui ad autodefinirsi così – invece gli avrei voluto mostrare la mia collezione di foto che custodisco sullo smartphone. Tutta la gente che vedo estrarre rotoli di banconote da cinquanta, cento e duecento euro e pagare la spesa in contanti. Da dove crede che vengano tutti quei soldi? Io sono uno di quelli che non gira nemmeno con i 50 centesimi per il carrello. Se sono fortunato becco l’addetto alla raccolta e me ne faccio sbloccare uno. Nelle giornate no, vado al punto informazioni e chiedo in prestito una moneta. Ci sono sempre impiegate diverse ed è per questo che, non ricordandosi di me, si raccomandano che, una volta caricata la spesa in macchina e riposto il carrello, la restituisca, e questa cosa la prendo sempre un po’ sul personale. Anni fa sfoggiavo un praticissimo tondino di plastica – un gadget rubato in un centro commerciale a Berlino – delle dimensioni perfette, peccato che poi l’ho dimenticato in un carrello. Se si fosse trattato di una moneta, vi assicuro che non sarebbe mai successo.

istruzione e merit

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Alla fine sembra che Parthenope fumi quasi più di Berlinguer, anche se del compiantissimo segretario del PCI si notano molti più pacchetti ancora sigillati. Due differenti approcci al tabagismo che, purtroppo, sottendono una componente decisamente sessista. I comunisti fumano in quanto intellettuali, le loro sigarette contribuiscono a mettere per iscritto ideali, strategie, visioni, e le sedi di partito immerse nella nebbia che ovatta persino il rumore delle macchine da scrivere trasmettono la visione romantica dell’abnegazione civile che anni di reti Mediaset, grillismo e nazifascismo melonista hanno spazzato via. Il fumo delle dee nate in acqua invece costituisce un valore aggiunto al desiderio che la bellezza ispira nel prossimo e alla sensualità femminile, e una laurea in antropologia (attenzione spoilerissimo) con il massimo dei voti, alla fine, risulta un di cui. Mi chiedo solo se Paolo Sorrentino avesse in testa l’idea di Stefania Sandrelli come volto e corpo perfetto per interpretare la Napoli del 2024 e quindi abbia setacciato le agenzie alla ricerca dell’attrice più somigliante alla sua versione da giovane, che poi sarebbe stata Amanda Sandrelli, o viceversa. Di certo, il gesto indotto dalla memoria muscolare all’uscita dalla sala, a seguito della visione di entrambi i film, è quello di tastarsi il taschino della giacca alla ricerca di un pacchetto.

Il connubio tra tabacco e politica nel mio caso si è consumato proprio nel corso di una manifestazione di piazza contro il primo governo Berlusconi. Rammento perfettamente l’istante: era il 12 novembre 1994, e a nemmeno metà percorso del corteo di protesta contro la legge finanziaria ho estratto le Winston dal mio parka ma, anziché accendermi l’ennesima sigaretta, ho gettato il pacchetto ancora pieno in un cestino della spazzatura a lato della strada. Avevo iniziato sottraendo le Milde Sorte dalla borsetta di mia mamma in seconda media, circa quindici anni prima, e da allora non avevo mai smesso. Ho persino toccato punte di due pacchetti al giorno ai tempi dell’università. Prendevo il locale per Genova alle 7.01, rigorosamente nel vagone fumatori, e mi fumavo la prima, facile fare il calcolo fino a notte inoltrata nei bar del centro storico. Si poteva fumare ovunque tranne al cinema, ma mia mamma ricorda l’aria irrespirabile durante i film a cui assisteva con l’uomo che poi sarebbe diventato mio papà, da fidanzati.

Da quella manifestazione non ho mai più fumato sigarette con continuità. Mia moglie ed io le compriamo quando siamo in vacanza perché fumare in estate, usciti dall’acqua o al ristorante all’aperto di sera con il vino bianco fresco, è un cliché da cui non vogliamo esimerci. Non solo. Scrocco una Camel blu alla mia collega di sostegno ogni lunedì, al termine delle lezioni pomeridiane e prima della programmazione. Mi unisco al gruppetto di insegnanti fumatori più o meno accaniti e, tra un tiro e l’altro, ascolto i racconti quotidiani sull’andamento delle classi. Raramente intervengo perché un po’ mi gira sempre la testa, quando fumo, e ho paura di biascicare con la voce. Dopo un po’ di sigarette offerte però acquisto un pacchetto e lo offro in dono alla collega. La prima volta un po’ si è offesa ma poi ha compreso il senso del mio gesto – mi fa sentire meno un peso per il prossimo – e accetta le sigarette con un sorriso.

The Cure – Songs Of A Lost World

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Ho visto This Must Be The Place, il film di Paolo Sorrentino, solo una volta, più di dieci anni fa. Non è certo il lavoro più riuscito del regista de Le conseguenze dell’amore, e probabilmente nemmeno una pellicola così memorabile, ma i The Cure sono la mia band preferita. Ecco perché non dimenticherò mai la scena finale. Sean Penn nei panni di Cheyenne, la trasposizione cinematografica di un Robert Smith alle soglie della terza età, che raggiunge a piedi la casa della madre dell’amica Mary e scambia con lei alla finestra uno sguardo d’intesa. La star degli anni ’80, senza trucco, ora ha i capelli corti e grigi, indossa abiti più che ordinari, e completa con quel gesto il suo percorso di redenzione.

Ci troviamo al cospetto di un’opera di fantasia che però assolve a un compito ben preciso, quello di colmare il profondo gap che va da Wish a Songs Of A Lost World. Un salto quantico di trentadue anni durante i quali è successo di tutto. Intanto ci sono stati quattro dischi tutto sommato irrilevanti (se nei live di presentazione del nuovo album alla BBC e al Troxy non c’è traccia, un motivo ci sarà) nonostante i quali la popolarità di Robert Smith e soci si è ampliata a dismisura fino a raggiungere livelli di cui la Rock & Roll Hall of Fame forse è il riconoscimento più trascurabile.

Nel 2024 è fuori discussione che i The Cure occupino il piano più alto nell’olimpo delle star del rock alternativo. Sono la band più influente della storia e la meticolosa e intelligente operazione di marketing che ha preceduto il ritorno sulle scene con Songs Of A Lost World c’entra, ma solo in parte. Robert Smith con le sue faccette e le sue moine, nei video delle sue canzoni più iconiche, è tra le cause principali di fenomeni come la diffusione del nuovo post-punk e dell’inarrestabile e acritica retromania nostalgica per gli anni ottanta soprattutto da parte di chi non li ha vissuti, per non parlare della pervasiva diffusione del mito della band grazie alle sottoculture della rete e dei social.

Gli ultimi sedici anni, poi, quelli che invece separano Songs Of A Lost World da 4:13 Dream, hanno visto i The Cure assidui headliner di palchi e festival in tutto il mondo, per non parlare della loro agiografia su Youtube (in lungo e in largo, sia nella dimensione dello spazio, sia in quella del tempo) con esibizioni e apparizioni in cui il loro passato glorioso, quello più amato dai fan e che si conclude dalle parti di “Friday, I’m In Love”, non ha mai smesso di essere beatificato e rimpianto.

Ecco perché non c’è nulla come la scena finale di This Must Be The Place di Paolo Sorrentino che soddisfi una delle mie fantasie più audaci. Sean Penn/Cheyenne/Robert Smith pettinato e vestito da persona normale mi fa illudere sul fatto che sia prevista davvero una terza età per le star, una stagione della vita in cui i musicisti si tramutano in normali persone anziane come qualunque altro impiegato del catasto e non in anziani musicisti, non so se mi seguite.

Una stagione in cui i cantanti vanno in pensione, anziché suicidarsi prima o morire di overdose a ventisette anni. Un momento in cui sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti alla loro attività e che presenta, anche per chi suona per mestiere, le stime per sancire quando sia il momento di fermarsi (che poi farebbe bene in primis ai musicisti stessi, a quel certo punto della loro vita, il fermarsi).

Un nuovo corso, in cui cose come andare a far la spesa o riabbracciare i nipotini all’uscita da scuola impongono il superamento del look da cosplayer del rock o del dark o di quello che volete e, con addosso una felpa in pile come tutti i vecchi le cui mogli non hanno giustamente più voglia di stirare camicie, frequentano il circolo del burraco, praticano il pilates e cercano il riparo al fresco dei centri commerciali, seguendo il palinsesto della sopravvivenza alle estati sempre più roventi, imposto dai tg.

Il punto è che Robert Smith ha paura di invecchiare (come biasimarlo) almeno da “Sinking”, epocale brano di chiusura di The Head On The Door, e si sentiva anziano persino il giorno prima di comporre “In Between Days”, ma sono pronto a scommettere che segnali analoghi sono rintracciabili anche in dischi precedenti. Per non parlare di Disintegration e, dopo, di Bloodflowers, album in cui la morte è il tema ricorrente. E probabilmente va ricondotta a questa ossessione condivisa la necessità di conciarsi sempre uguale a se stesso, anzi, al suo travestimento da Robert Smith, con i pochi capelli rimasti cotonati e l’eyeliner, ancora oggi, a 65 anni suonati.

E se considerate che di dischi di addio alle scene dei The Cure ce ne sono già stati almeno tre, per non parlare della quantità di “Endsong”, quelle ultime tracce e finti addii che poi sono commoventi arrivederci, ci dev’essere un demone in Robert Smith che lo spinge, con una sorprendente ricorrenza, a ribadire a se stesso questo concetto. Siamo mortali, anzi, mortalissimi. Siamo destinati a disintegrarci, un giorno di questi, e quel giorno lo affronteremo comunque da soli. Indossare una maschera ci aiuta ad allontanare chi e che cosa diventeremo e a rinnovare lo stesso rito sul palco, per noi stessi e per quello che rappresentiamo per i nostri seguaci. Non so dirvi se ciò sia la soluzione al problema, ma da un certo punto della vita in poi, a quanto sembra, funziona.

Chi ha partecipato ai pre-ascolti di warm-up propedeutici all’uscita del disco (come se ce ne fosse davvero il bisogno, per una band così importante) ha scritto che Songs of A Lost World è il miglior album dei The Cure dopo Disintegration. Io mi dissocio. È il miglior album dei The Cure dopo Wish, che non ha nulla da invidiare al suo predecessore. La formula di Songs of A Lost World è però la stessa dei quattro dischi pubblicati da allora ma, a differenza degli altri, è un disco che ce l’ha fatta.

Otto eterne non-canzoni dilatate secondo flussi più o meno ricorsivi di componenti indistinguibili. Lunghe e suggestive intro strumentali, arrangiamenti ridotti al minimo con tappetoni di tastiere, strofe e ritornelli intercambiabili, melodie che non aggiungono granché alla straordinarietà delle struggenti ballate gotiche che compongono il disco, code trascinate come quei saluti finali che nessuno vorrebbe mai estinguere davvero, in un incedere suonato da musicisti legittimamente e meravigliosamente affaticati dalla propria età artistica e anagrafica.

E, al contrario dei capolavori nati nell’età dell’oro in cui si è consolidato il mito di Robert Smith, è un lavoro completamente privo dei ritornelli catchy e di quella disorientante scanzonaggine pop dei singoli dei The Cure che hanno fatto la storia e che, in questo eterno presente, compongono quotidianamente le prime pagine dei nostri social sotto forma di meme. Stesso discorso per certi ritmi sostenuti, in Songs Of A Lost World del tutto assenti, che hanno spalancato le porte dei club alla loro musica, quei brani danzerecci punti fermi di qualunque playlist che si rispetti per chi paga per ballare un po’ di musica alternativa. Ma forse la maturità musicale è proprio questa: un taglio con il passato per un compromesso con il futuro. Anche se, dal vivo, i The Cure attingono ampiamente dai fasti di un tempo (a partire dai 45 anni di Seventeen Seconds) e tengono il palco con una forma e una compattezza che non ha confronti.

È bene che siate consapevoli di tutto questo prima di approcciare Songs of A Lost World, un bel disco di un gruppo di artisti anziani che suona e canta canzoni di un mondo perduto, musica da vecchi e destinata a vecchi, ma (credetemi) nell’accezione migliore di tutto questo. C’è la sensazione di essere soli e vicino alla fine di “Alone”, un modo di comporre intro per i suoi dischi con i quali Robert Smith ci vizia da sempre, subito smentita dalla promessa di stare vicino al prossimo sino alla morte di “And Nothing Is Forever”. Ci sono i rimpianti di “A Fragile Thing” e i conflitti che svuotano le relazioni di “Warsong”. La paura delle complessità del presente di “Drone:Nodrone” e la perdita dei propri cari di “I Never Can Say Goodbye”. L’insicurezza di sé di “All I Ever Am” e il commiato di “Endsong”, simmetrico per le sue tematiche alla traccia di apertura, la paura di invecchiare in un mondo alla deriva.

Tematiche dark da manuale, al limite dello stereotipo, sotto tutti i punti di vista, che, nel 2024 e nello status quo delle cose, meritano molta più dignità che allora, e che solo la sensibilità di un artista più che maturo riesce a rendere in pieno: “Left alone with nothing at the end of every song. Left alone with nothing, nothing, nothing”, ripetuto all’infinito quasi come l’ad libitum di “again and again and again” di “A Forest”, quando si correva verso il nulla e una ragazza mai esistita. Ed è per questo che la maschera di Robert Smith, il trucco di quell’adolescente che contemplava la luna sul volto dell’anziano che si trova a fare ancora altrettanto, che a differenza del Cheyenne di This Must Be The Place non si concede e non ci concede nessuno sguardo di intesa finale (tantomeno una redenzione) vista da qui, oggi, non ha più senso di esistere.

retrocessione

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Stamattina riflettevo sul fatto che pochi settori di per sé strategici come la scuola sono scollegati dal resto dell’economia. Non si tratta certo di una conclusione a cui sono giunto così all’improvviso, perché lo penso da sempre e so che lo sapete bene anche voi. Ho vissuto però, nel giro di un paio di giorni, due episodi apparentemente differenti tra di loro che confermano tutto ciò, fermo restando che alla base c’è una questione di stato d’animo o umore, chiamatelo come volete. Voglio dire che ci accorgiamo di certe cose solo quando abbiamo una predisposizione emotiva adatta a percepirne la portata. Sul primo episodio c’è poco da dire. Ho un bimbo quest’anno nella mia prima a cui avrebbe fatto bene ancora un anno alla scuola dell’infanzia. Lunedì pomeriggio, mancava una ventina di minuti al termine delle lezioni, per farla breve se l’è fatta addosso – la cacca – ma in un modo a dir poco rocambolesco e con un impatto devastante per il bagno e su di sé, non vi sto a raccontare i dettagli ma non avete idea di come si è conciato. Il secondo è accaduto invece poco fa: ogni tanto faccio un giro su LinkedIn e, probabilmente a causa dei (o grazie ai) miei trascorsi professionali, ma di colleghi non c’è manco l’ombra. Poi mettici l’età anagrafica, intendo la mia, e il fatto che a scuola non funziona mai nulla: la dimensione organizzativa, il flusso della comunicazione, i proiettori delle LIM, il recruiting del personale, le linee guida del Ministero e dell’Ufficio Scolastico, la formattazione del testo nelle email dei colleghi. Ecco, se c’è un campionato mondiale dei settori industriali e professionali, chi lavora come me nella scuola milita in prima divisione, o in promozione per parlare in linguaggio calcistico, o comunque la serie più dilettantistica che c’è.

disclaimer – una trama imperfetta

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Si gioca così: si accende il pc, si va su Facebook e si commenta il primo post che capita in home con l’ultima cosa che si è detta prima di aprire il computer. A me è toccato un articolo di pseudoscienza dedicato a quel posto del Minnesota in cui si sta testando il sistema di accumulo di tutto il caldo estivo in eccesso che poi viene rilasciato durante i mesi invernali e, viceversa, la possibilità di immagazzinare le temperature rigide dei mesi freddi da rilasciare per mitigare le giornate più torride della bella stagione. Una tecnologia ricordiamo a impatto meno di zero perché non consuma nessun tipo di energia rinnovabile o fossile che però corre il rischio di normalizzare in eccesso il clima, generando lunghe primavere di dodici mesi con giorni tutti uguali che, alla lunga, potrebbero rompere i maroni. Manco a farlo apposta, avevo appena discusso con mia moglie della miniserie tv che ci siamo bruciati in una sera, i cinque episodi di “Disclaimer – La vita perfetta”, scritta e diretta da Alfonso Cuarón, un argomento che, appunto, si trova agli antipodi dell’ingegneria della termoregolazione e che mi ha consentito di guadagnare 10 punti netti al Fantasocial, balzando in testa tra i miei compagni di torneo.

Comunque, con mia moglie, io andavo sostenendo che la trama di “Disclaimer” non sta in piedi ma, nel commento che ho postato e che riporto qui sotto, c’è un’elevata concentrazione di spoiler quindi il mio, di disclaimer, è che questa riga è l’ultima possibilità che vi resta per cambiare lettura prima di rovinarvi l’esperienza di visione.

Il romanzo della scrittrice Renée Knight, da cui è tratta la serie, è stato pubblicato nel 2015. Possiamo supporre la sua gestazione e la conseguente ambientazione almeno intorno al 2010. Nicholas, durante lo svolgimento dei fatti, ha 25 anni. Ai tempi del viaggio in Italia in cui Jonathan ci lascia le penne ne aveva 4, quindi Jonathan e Catherine vivono la loro infuocata notte di sesso venti anni prima, ipotizziamo nell’estate del 1990 circa. Ne conseguono alcune grossolane approssimazioni di ricostruzione storica. L’ostentazione di “Ti amo” di Umberto Tozzi come commento musicale in grado di evocare una sintesi dei luoghi comuni sui flirt consumati nella cornice delle località balneari delle estati italiane è fuori contesto. Nel 90 o giù di lì gli anni 70 erano finiti da un pezzo e nessuno si sarebbe sognato di ascoltare quel vecchiume, il revival di “Anima Mia” e compagnia cantante era ancora lontano da venire.

La storia poi inizia con Jonathan e Sasha che trombano nello scompartimento di un vagone letto di un Eurocity. Si vede il controllore entrare senza preavviso, cogliendo i due sul fatto, un’intrusione che non sta né in cielo né in terra. Ma non è tutto. Jonathan, più di una volta, si fa i selfie a Venezia con una macchina fotografica tradizionale con tanto di mega-obiettivo, cosa che a nessuno sarebbe mai venuta in mente. In primis, in quanto gesto sconveniente secondo qualunque principio dell’ergonomia: le fotocamere di una volta erano tutt’altro che maneggevoli e pratiche per puntarsele contro. Senza contare che, prive del display nella parte anteriore, la possibilità di inquadrarsi e regolare la messa a fuoco manuale dell’obiettivo – per non parlare di non riuscire nella foto con una faccia da idiota – è pressocché impossibile. Piuttosto, Jonathan e Sasha avrebbero potuto fermare qualcuno, come si faceva ai tempi in cui eravamo ancora animali sociali dal vivo, e chiedergli di scattare una foto. A Venezia quindi c’è un altro svarione anacronistico di sceneggiatura: il conto della navigazione sulla gondola gli viene calcolato in euro anziché in lire. Vabbè, questo dettaglio è da ossessivo-compulsivi e facciamo finta di niente, e comunque potrei sbagliarmi io.

Non posso invece soprassedere sulla prestazione di Jonathan nella trombata di cui sopra. Il ragazzo conclude in anticipo il suo apporto, rispetto alla partner, un passo falso dovuto all’irruenza tipica dei diciannove anni e che si ripropone qualche sera dopo a letto con Catherine, e fin qui non c’é nulla di sorprendente. In entrambi i casi, però lo si vede riprendere con successo la performance senza soluzione di continuità, in un caso a quanto sembra senza nemmeno sottrarsi almeno per una veloce pulizia delle parti coinvolte, una scena di fanta-erotismo che contribuisce a diminuire la portata di credibilità della storia. Una tecnica che per qualcuno può riflettere fedelmente la normalità, ma non per lo spettatore maschile medio, che già a fatica porta a compimento la prima sessione in modo soddisfacente, figuriamoci la seconda e senza nemmeno un adeguato tempo di recupero.

Poi non è per nulla convincente tutta la questione del libro. Catherine riceve una copia di “The Perfect Stranger” nel primo episodio e ne rimane sconvolta. Il modo in cui il marito Robert sottovaluta lo stato di choc di Catherine non è per nulla credibile, se consideriamo la devozione e l’attenzione che pone nei suoi confronti. Un compagno di vita di quel tipo, come minimo, osservando la reazione della moglie, si sarebbe subito precipitato a leggere il romanzo. Ma, se fosse andata così, un personaggio intelligente come Stephen avrebbe collegato immediatamente le vicende della protagonista con la vita di Catherine, e la serie sarebbe finita lì, alla prima puntata.

Senza contare la coincidenza del ritrovamento della seconda copia del libro nel negozio in cui lavora Nicholas. Nel giro di qualche giorno una madre e un figlio ricevono misteriosamente lo stesso romanzo – un libro peraltro di self-publishing – e nessuno si insospettisce? Ho trovato poco chiara anche la stesura stessa di “The Perfect Stranger”. Nancy – la madre – non ha nessun contatto con Catherine nei giorni successivi alla morte di Jonathan. Mi chiedo quindi come abbia fatto a descrivere minuziosamente i dettagli erotici tra Catherine e Jonathan senza che nessuno glieli avesse mai raccontati. E la stesura doveva essere decisamente fedele ai fatti, se osserviamo la reazione di Catherine dopo la lettura. Come è possibile che abbia scritto la storia per filo e per segno fantasticando solamente sulle stampe delle foto scattate dal figlio? Infine, quando Stephen – il padre di Jonathan – allestisce la libreria di riferimento di Catherine con svariate copie del romanzo, il comportamento della proprietaria nell’organizzazione della presentazione del libro risulta inverosimile.

Anche il modo in cui Stephen, nel primo episodio, trova la chiave del cassetto della scrivania di Jonathan in cui la moglie ha conservato le bozze dattiloscritte del libro fa acqua da tutte le parti. La chiave è in una borsetta che cade dal fondo dell’armadio di Nancy dopo che Stephen lo svuota dai vestiti della consorte. Stephen sostiene che Nancy abbia voluto fare in modo che lui trovasse la chiave, e quindi il romanzo. Ma, se davvero fosse stato davvero così, non l’avrebbe certo nascosta in punto che solo un evento totalmente casuale gliela avrebbe fatta scoprire. Piuttosto, semmai, il contrario: Nancy, stremata dal dolore per la perdita del figlio e successivamente dal cancro, si pente in punto di morte di aver scritto il libro e cerca di nasconderlo al marito proprio per evitargli inutili ulteriori sofferenze e rischiose conseguenze.

Un altro aspetto che ha deluso le mie aspettative è stata la conferma che Jonathan è davvero morto annegato per salvare Nicholas, mentre tutto mi faceva pensare (o almeno fino alla fine ho sperato) che, in realtà, Catherine avesse avuto un ruolo attivo nell’uccisione del suo amante e potenziale stalker in grado di distruggere la sua famiglia perfetta. Certo, esimendosi dal dare l’allarme ai bagnini sul pericolo in corso in mare ha contribuito alla morte del ragazzo. Ma la cicatrice sul braccio di Nicholas, notata dai genitori al momento del riconoscimento del cadavere, per un po’ ha lasciato spazio all’immaginazione di un colpo di scena.

Mi è sembrato molto forzata, infine, la dinamica del contatto su Instagram conclusivo tra Nicholas e il profilo fake di Jonathan gestito da Stephen e il loro scambio di messaggi, nell’ultimo episodio che sancisce l’atto finale della tragedia che condannerà Nicholas, al culmine della disperazione, al sacrificio di sé e alla redenzione. L’uso manipolatorio dei social non è affatto realistico e la scena non è approfondita a sufficienza, per non dire troppo frettolosa.

E poi, obiettivamente, una messa come Leila George D’Onofrio in quale film ti invita a salire in camera in quel modo?

intervallo

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Sono curioso di sapere chi ha inventato la colonna sonora. Immagino lo stesso che ha pensato che i film muti sarebbero stati pallosi in quel silenzio totale e che quindi assoldare pianisti in grado di conferire valore aggiunto con esecuzioni live alle immagini potesse essere una buona idea. Poi da lì la cosa deve aver preso una deriva incontrollata. Il piano è stato sostituito da intere orchestre sostituite poi a loro volta dai computer dei sound designer.

Il punto è che, nel frattempo, le immagini si sono arricchite dei dialoghi che hanno decretato l’obsolescenza dei cartelli inseriti tra una scena e l’altra con le battute della sceneggiatura, avete presente? Sicuramente hanno un loro nome ma non sono del mestiere quindi stateci. Il risultato? Immagini più voce dei protagonisti più musica uguale botta emotiva senza precedenti e il prodotto finale diversificato tra l’iper-realtà del grande schermo corredata dal sorround per un effetto immersivo mostruosamente coinvolgente, oppure stravaccati sul divano con Netflix acceso sacrificando la maestosità delle immagini macroscopiche alla comodità di non mettere il naso fuori di casa, rinunciare alla puzza dei popcorn e non farsi venire il nervoso per chi chiacchiera durante la proiezione al cinema o chi ogni tanto dà un’occhiatina allo smartphone o, non so dire peggio o meglio dei precedenti, a quelli che si lavano poco.

A questo punto della nostra civiltà vedere foto o riprese video senza un commento musicale sotto ci sembra una cosa completamente innaturale, tanto che, quando succede, ci preoccupiamo subito di controllare se il driver delle casse è da reinstallare o se abbiamo inserito per sbaglio il mute o se siamo diventati all’improvviso sordi o comunque, nel dubbio, spegniamo e riaccendiamo. Ormai siamo talmente abituati che non potremmo fare a meno di avere una colonna sonora di qualsiasi cosa ci venga proposta, anche se poi molto spesso non facciamo nemmeno caso alla musica. Ma vuoi mettere la sicurezza di non provare l’imbarazzo del silenzio assordante del vuoto.

Anzi, a volte, quando guardiamo una slideshow di foto o una storia sui social, i brani scelti con troppa personalità ci disturbano e rimpiangiamo quei bei sottofondi di un tempo composti in serie da esseri umani e oggi dall’intelligenza artificiale.

La best practice più attuale dell’accompagnamento di immagini con canzoni contestuali è il programma “Casa a prima vista”, avete presente? Mentre gli agenti immobiliari mostrano le loro proposte, o meglio le cosiddette “soluzioni”, a ogni descrizione di edifici, di ambienti e di arredo è associata una canzone che riprende il succo di quanto viene detto, se non addirittura parole chiave dei dialoghi in una maniera esageratamente didascalica. Vi faccio un esempio. Qualche sera fa, a proposito di un bagno definito dagli agenti di stile italiano, la descrizione è stata montata su “L’italiano” di Toto Cutugno, ma non crediate che funziona solo con brani triti e ritriti. Una coppia appassionata di due ruote vintage è stata anticipata da una vera chicca del beat nostrano, e mi riferisco alla canzone “La motoretta” degli Scooters.

Questo impeto di ridondanza mi ha fatto così riflettere sull’urgenza di un sound designer universale che scelga per voi canzoni più adatte a ogni frase che pronunciate o ogni spazio in cui vi ritroviate. Detto fatto. Mi sono candidato a questa posizione e, da lunedì scorso, questo è il mio nuovo lavoro. Non avete notato che a ogni cosa che dite c’è un brano sotto che ne aumenta il valore, il senso o la portata persuasiva? Tutto grazie a me e alla piattaforma che ora gestisco dalla mia postazione: una consolle virtuale da cui ho accesso alla banca dati infinita (più infinita di Spotify) delle musiche composte da quando l’uomo ha scoperto l’efficacia di mettere insieme due o più suoni, che ora è interconnessa alla timeline delle vostre vite. E non dovete nemmeno effettuare l’accesso, quindi niente credenziali. Faccio tutto io. Il DJ universale, che poi era da sempre la mia aspirazione totale globale, ricordate?

Ecco: la sentite la musica sotto? Sono io che l’ho messa, in perfetta linea con quello che state facendo, e se vi mettete in punta di piedi mi potete vedere, laggiù. Sono quello con le cuffie bianche. Spero che il mio approccio sia di vostro gradimento. Scordatevi le scelte banali, scontate e telefonate. Da me solo canzoni di qualità contestuali quanto basta, in modo molto discreto. Per richieste particolari, potete scrivermi anche solo commentando qui sotto.

diego

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Voi che avete inventato le luci di posizione anteriori verticali che quando sono accese, di notte viste nello specchietto retrovisore, danno alle automobili le sembianze di una tigre dai denti a sciabola che vi rincorre e, se siete anziani e avete un Yaris ibrida con la ripresa di uno scooter monomarcia, voi siete la preda, in un mondo in cui la gente è sempre più fuori di testa e utilizza la macchina come transfer per sublimare la propria aggressività, voi che avete inventato le luci di posizione anteriori verticali non avete avuto una grande idea.

alone

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Una cosa che manda in brodo di giuggiole i genitori sono gli insegnanti che fanno ascoltare i Beatles in classe. Non ho abbastanza elementi per dimostrare se si tratti di una best practice pedagogica consolidata o semplicemente di una leggenda metropolitana, tanto quanto l’esposizione a Mozart degli esseri umani sin dalla fase pre-natale che ci renderebbe più intelligenti, men che meno di un metodo di mia invenzione.

Da attempato musicologo trombone posso solo dimostrarvi l’interdisciplinarietà del valore dei Beatles, nella fascia di età della scuola primaria. Sono utili se insegnate inglese, ovviamente, perché vi permettono di coniugare lo sviluppo dell’orecchio alla pronuncia perfetta con un dizionario adatto a qualunque esigenza, per non parlare di ciò che il quartetto di Liverpool rappresenta, ossia un’icona inconfondibile della cultura e della civiltà britannica. Sono utili se insegnate musica, perché rendono superfluo il ricorso alle zecchinate d’oro per l’intrattenimento dei più piccoli e intercettano le derive tamarre, nel migliore dei casi verso la trap di periferia ricca di parolacce, nel medio dei casi verso il pop in quota Annalisa e battiti live vari, nel peggiore dei casi verso i balli di gruppo da oratorio/club vacanze, grazie alla portata di un’alternativa convincente, comunque popolare, decisamente autorevole, poco di nicchia, tutt’altro che superata e di facile ascolto. Sono utili anche se insegnate italiano – i loro testi grondano di citazioni utili a semplificare grandi questioni, una volta tradotti – e perché no storia, in quanto perfettamente ascrivibili a un periodo decisivo per la modernità. Per non parlare del cartone animato di Yellow Submarine, provate a proiettarlo in classe e godetevi le reazioni.

Ma mai avrei immaginato che il mio vezzo di introdurre le lezioni con una sigla, una canzone dei Beatles – siamo partiti con la classica “All Together Now”- da variare ogni mese per catturare al meglio l’attenzione dei bambini, avrebbe generato una così invidiabile sintonia con i genitori della seconda C, la classe in cui insegno solo inglese. Le famiglie sono i principali stakeholder della scuola, metterli al corrente nel corso delle assemblee di classe di quello che facciamo costituisce un insuperabile veicolo di customer satisfaction. Ho presentato il programma nemmeno fossimo all’università – in seconda sono previste due ore la settimana, una in più rispetto alla prima – e senza volerlo ho centrato in pieno le aspettative rispetto all’insegnamento della lingua straniera, oggi secondo solo alle STEM come ossessione didattica della scuola dell’obbligo. Un papà ha detto che proporre i Beatles ai bambini gli sembra un’idea fantastica, tutti gli altri hanno confermato di trovarsi d’accordo, una mamma dichiaratamente metallara mi ha chiesto addirittura che cosa pensavo di far ascoltare nei prossimi anni. Non le ho detto che con i metallari noi dark ci menavamo, anzi i metallari menavano noi, negli anni ottanta, non mi sembrava la sede più adatta. Ma non è questo il punto.

So di deludervi, ma a me l’idea di somministrare una seconda lingua a mocciosi che a malapena si sanno esprimere nella prima non convince per niente, e mettere musica in inglese mi sembra comunque un modo efficace per perdere un po’ di tempo a lezione. Alla fine l’inglese per bambini così piccoli si risolve in una serie di istruzioni e parole tradotti letteralmente da imparare a memoria. Se va bene così, allora non c’è problema anche da parte mia. Un bagaglio a mano linguistico utile a sguinzagliarli da soli ad acquistare gelati in occasione delle prossime vacanze all’estero che farete. Un consiglio però: controllate che sappiano farsi restituire il resto corretto.

Il problema sono semmai le foto in bianco e nero, dei Beatles. Com’è possibile che siano esistiti giovani negli anni 60?, sembrano chiedere i bambini. Com’è possibile che delle canzonette pop siano state composte quando i nostri nonni erano appena nati? Quanti anni hanno, ora, quei capelloni?

Io sono uno che non indora certo la pillola, faccio eccezione solo per Babbo Natale ma non ho nessun problema a dire tutte le altre verità. Paul ha 82 anni, Ringo 84, George è morto a causa di un tumore e John è stato addirittura freddato da un folle mitomane a 40 anni, davanti a casa sua. Spoilero immediatamente come stanno le cose per evitare il susseguirsi di domande morbose su argomenti che interessano tantissimo i bambini di quella fascia di età e tagliare corto.

Questa volta però c’è stato un plot twist che devo assolutamente raccontarvi. Ginevra, quella che siede nel secondo banco, è piena di tic perché a 4 anni è stata dimenticata sullo scuolabus che la portava alla scuola materna. Ha trascorso tutta la mattina chiusa nel deposito fino a quando qualcuno è riuscito a ricostruire la catena degli avvenimenti, l’ha riportata a casa e sono state avviate tutte le procedure del caso per attribuire la scala delle responsabilità. La mia è una scuola di un comune di quattro gatti, e questa notizia ha fortunatamente fatto passare in secondo piano quella – decisamente più sconveniente per l’istituzione che rappresento – del nonno che ha sbagliato a ritirare il nipote giusto. Ha preso un bambino e, sulla via di casa, qualcuno che lo ha rincorso gli ha fatto notare il qui pro quo.

Dicevo che Ginevra, tra un tic e l’altro, scesa l’attenzione sulla morte dei Beatles, mi ha chiesto se i musicisti quando diventano vecchi vanno in pensione. Volevo dirle che sarebbe una cosa fantastica perché significherebbe che quello del musicista è un lavoro, che i musicisti arrivano a un certo punto della loro vita senza morire di overdose o suicidarsi a ventisette anni e che, a quel punto della vita, sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti anche alla loro attività e che fa anche per i musicisti i calcoli per capire quando è il momento di fermarsi. Che poi sarebbe un bene che i musicisti, a quel certo punto della loro vita, si fermassero. Volevo dire a Ginevra che avevo la risposta, o meglio che le avrei risposto solo dopo aver ascoltato il nuovo disco dei Cure che sta per uscire, tra qualche settimana. Avrò le idee più chiare sul fatto che i musicisti sanno riconoscere davvero quando è il momento giusto per andare in pensione.