sardonico

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Se ci fosse giustizia nell’universo Alessandra Sardoni sarebbe da sempre la direttrice del TG7 e Mentana un galoppino qualunque, uno di quelli che la redazione spedisce a correre dietro alle mezze calzette tra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama per strappare qualche dichiarazione imparata a memoria. La sua figura di merda, con Lilli Gruber, è stata epocale e, per dirla alla milanese, alla conduttrice di “Otto e mezzo” Mentana “non le porta dietro nemmeno le ciabatte”.

kamikaze

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Una delle raccomandazioni che mi sono state fatte quando ho vinto il concorso e ho iniziato a lavorare nella scuola è stata di non diventare uno di quelli che raccolgono gli strafalcioni di alunni, colleghi, bidelli e personale amministrativo e poi tenere un diario, un blog, un profilo social o addirittura scrivere un libro e vendere milioni di copie e fare un pacco di soldi. Tranquilli, cari amici, vi prometto che non ho nessuna intenzione di diventare ricco sfondato. Quello degli errori grossolani costituisce un genere letterario banale, ampiamente sfruttato e che non fa ridere nessuno. È per questo che mi sono sempre rifiutato di pubblicare le foto di alcune scatole che ho trovato nell’armadio del laboratorio di informatica, nemmeno quella su cui qualcuno ha scritto “maus” o quell’altra la cui etichetta in pennarello riporta il contenuto e cioè un “ruter” e non è solo un problema di lingua. Le castronerie informatiche nel mondo della scuola meriterebbero infatti un capitolo a sé, e se potessi occuparmene in prima persona comincerei la storia narrando la leggenda metropolitana, da sempre consolidata nel comprensivo in cui insegno io, secondo cui i file audio mp3 delle prove Invalsi, dopo il primo e unico ascolto consentito, per una certa alchimia soprannaturale non permettono più di essere riprodotte. Stamattina una collega mi ha aggredito verbalmente perché – con un anticipo decisamente ampio rispetto alla campanella e quindi al riparo dal rischio di diffondere un segreto che, Fatima a parte, non ha eguali – ho testato la qualità delle casse della sua aula con l’audio della prova standard del listening di Inglese. Io pensavo scherzasse, poi altri colleghi mi hanno guardato nemmeno avessi bestemmiato. “Sei pazzo”, mi sono sentito dire. “Non lo sai che al secondo ascolto si bloccano e diventano inutilizzabili?”. Ho pensato a quale evoluta tecnologia di crittografia in dotazione al ministero potesse essere in grado di abilitare una funzionalità simile su file scaricati su dispositivi personali, poi ho velocemente passato in rassegna certe farneticazioni istituzionali sul digitale a cui sono quotidianamente esposto nell’ambiente in cui lavoro, ho fatto due più due e, tornato in me, sono scoppiato a ridere. Eppure, un mp3 kamikaze che, al secondo ascolto, si fa esplodere sul desktop potrebbe costituire l’incipit di un best seller di un nuovo genere letterario che coniuga l’intelligenza artificiale a un certo umorismo demenziale tipico di chi, come me, non fa ridere nessuno. Sentite questa: ti va di salire da me a vedere la mia collezione degli audio delle prove Invalsi degli ultimi cinque anni? Li metto con una certa frequenza, soprattutto quando voglio preparare per bene i miei alunni per il test più inutile di tutto l’intero percorso didattico e formativo, eppure funzionano ancora perfettamente. Non se ne è consumato nemmeno un bit.

OMNI – Souvenir

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Se siete fanatici di Tetris, il sound degli Omni è quello che fa per voi. In Souvenir ogni parte va a incastrarsi alla perfezione al suo posto, alla velocità dei livelli riservati ai giocatori più esperti.

Se in natura davvero esiste il math rock, lo stile degli Omni rimanda invece a forme geometriche rigorosamente regolari. Il trio di Atlanta suona un quadratissimo post-punk che, se non fosse completamente elettrico, sembrerebbe pilotato attraverso un trigger proveniente da un calcolatore elettronico. Souvenir è un capolavoro di precisione. Vi sfido a trovare una nota o un colpo di batteria o una sillaba fuori quantizzazione. Tutto sembra perfettamente al proprio posto, in un’alternanza regolare tra suono e pausa.

L’effetto è al limite del robotico, una versione ancora più asciutta dei Devo che si lascia andare a rarissime (e quando si manifestano, deflagranti) eccezioni. Un approccio meccanico e meticoloso che porta persino a scriverne come sto facendo qui. Poche parole per riga, in linea con la brevità delle undici tracce dell’album. Canzoni volutamente omogenee, una regolarità tradita solo dai gradevolissimi cameo vocali di Izzy Glaudini delle Automatic.

Da Souvenir abbiamo solo da imparare. Intanto che nell’era dell’intelligenza artificiale è ancora una volta l’umanità a interpretare al meglio il ruolo della macchina, sia quando si tratta di comporre musica che di scrivere testi dal significato inaccessibile. Poi, che solo la precisione e l’ordine ci salveranno dal caos. Infine, che si può ridurre ai minimi termini la propria arte solo quando, come per gli Omni, c’è davvero sostanza e l’opera mantiene il significato anche con poco, anzi meno. In una sceneggiatura che non ammette sbavature, la band di Atlanta inserisce persino colpi di scena in modo magistrale, su tutti l’impennata rock’n’roll (con tanto di pianoforte) in coda a “INTL Waters”, uno spin off pronto a mettersi in discussione attraverso un’ironica destrutturazione con schianto finale.

Con la pubblicazione di Souvenir, il cantante/bassista Philip Frobos, il chitarrista Frankie Broyles e il batterista Chris Yonker interrompono il periodo di silenzio seguito all’uscita del precedente Networker nel 2019. In mezzo c’è stata la pandemia, che ha messo in stand-by la collaborazione tra i tre e ha consentito lo sviluppo di progetti individuali di vario tipo. Al rientro alla base, l’apporto di Kristofer Sampson in sala di regia ha consolidato il tutto nel nuovo lavoro, fondamentale per riprendere esattamente dal punto in cui le composizioni si erano fermate. Souvenir conferma l’originale formula, un sound che risulta dichiaratamente lineare perché risultato di pattern consolidati che si incastrano efficacemente, tutt’altro che monotono. Anzi. Nell’album non si percepisce alcun calo di energia, nemmeno un irrisorio allontanamento dalla dimensione fisica e immediata della loro riduzione ai minimi termini del rock.

Rispetto ai dischi precedenti, in Souvenir c’è però uno scrupoloso lavoro di pulizia che troverà entusiasti e detrattori. Se volete la mia opinione, ascoltando le nuove tracce, va benissimo così. Ogni singola parte si percepisce distintamente e può essere isolata dal resto, ed è un piacere per le orecchie. Le parti di chitarra, in tutte le sfumature che vanno dal nitido al lievemente distorto, non perdono mai la loro freschissima asetticità, un valore aggiunto per gli amanti del genere. Ma è tutto l’album a risultare terso e tagliente come vetro, e non c’è traccia che scenda a compromessi in tensione.

Souvenir è una dichiarazione di contemporaneità e rimanda ai tempi e luoghi ben definiti in cui è stato pensato e realizzato. Non potrebbe essere altrimenti, considerando il ritmo mozzafiato della tracklist, che non lascia spazio alla nostalgia. Il che è paradossale, visto il carattere comunque evocativo e derivativo insito nel DNA del progetto. Il presente è anche questo, e non potrebbe meritare colonna sonora migliore. Proprio così. Anzi, come canta Frobos, “exacto, de facto”.

a lungo termine

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Avete mai fatto caso che molte delle cose che ci entusiasmano di più, o che seguiamo con maggiore appartenenza e partecipazione, c’entrano con la morte? Io nutro un forte e ossequioso interesse per le civiltà preromaniche e per la Resistenza partigiana, giusto per fare due esempi, ma ogni volta in cui mi trovo al cospetto di una necropoli o del 25 aprile, ecco che mi viene sbattuta in faccia una quantità di cadaveri così ampia – in foto, sotto forma di lapide o di urna cineraria – da lasciarmi sbigottito. D’altronde, riconoscerete anche voi il fatto che la storia o anche certe cose del passato, faccio un esempio meno cruento e dico David Bowie o Kurt Cobain, pullulano di defunti. Quanti miliardi di persone sono già scomparse dalla comparsa dell’uomo sulla Terra? Quanta gente ci ha lasciato le penne (immeritatamente o meritatamente) dall’8 settembre del 43 alla Liberazione? Fate voi i conti e aggiungete qualche unità in più, se ci spingiamo fino al 28 aprile e ai fatti di Dongo.

Per non sembrare il solito depresso e parlare solo di cose lugubri e sepolte (quando si è riusciti a trovare i corpi, perché in certe stragi opera dei bisnonni dei melo-lollobrigidiani a volte erano talmente conciati male che boh, pensate alle Fosse Ardeatine o a certi eccidi in Toscana) ho deciso che cercherò di considerare argomenti come questi solo dal punto di vista della vita. Ieri, al corteo di Milano, ho trovato un punto privilegiato che mi ha permesso di osservare un po’ più dall’alto – sfruttando anche la mia statura – la gente sfilare, dicono più di 100mila, ciascuno dietro ai vessilli da cui si sentiva più rappresentato. Ho visto almeno una dozzina di partiti riconducibili ai valori della sinistra, roba che se votassero tutti il PD come me saremmo ben oltre la maggioranza di questo paese. Ma non è questa la sola cosa che mi ha colpito. A differenza delle scorse edizioni, qui a Milano c’erano tantissimi ragazzi. Ma davvero tanti e di tutti i tipi, dagli scout al Leoncavallo. C’era davvero tanta vita, tanto futuro, tanta speranza. Non so come farò a trovare altrettanto ottimismo a proposito di Osci e Sanniti, ma sono sicuro che da qualche parte prima o poi incontrerò un corteo di studenti di archeologia che mi farà cambiare idea.

English Teacher – This Could Be Texas

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Che sia o no un disco post-punk, “This Could Be Texas” è un album d’esordio pressoché perfetto con il quale gli English Teacher superano tutte le aspettative.

Non erano abbastanza il modo che hanno solo loro di suonare la chitarra, un vocabolario pieno zeppo di parole tronche, la cultura della musica d’insieme (pensatelo in contrapposizione all’individualismo esasperato ed esasperante dei nostri ragazzi che puntano tutto solo su se stessi), i produttori discografici, la disinibizione compositiva e l’attitudine a superare qualsiasi canone armonico e melodico per meri fini commerciali (una volta avremmo tirato in ballo gli edit radiofonici, oggi parliamo principalmente di TikTok), per non parlare della fortuna di nascere in un posto dove la musica non è svilita ma è rispettata, insegnata e coltivata e, proprio per questo, parte integrante dell’economia, a farci schiumare di invidia.

Ci mancava giusto la possibilità di scegliersi nomi tipo i calamaro, la legge sul cantiere, la capitale degli omicidi, gira al minimo, paese nero strada nuova, lavaggio a secco, gamba bagnata. Da noi, forse, la cosa che si avvicina di più a l’insegnante di inglese è la rappresentante di lista. Oltre a tutte le fortune che hanno, in UK non c’è neppure bisogno di inventarsi neologismi roboanti o giochi di parole o, a parte i Bar Italia, puntare su nonsense in lingua straniera. In UK il rock è ancora una cosa seria. In UK il rock è ancora la musica più moderna che ci sia.

Tengo d’occhio l’uscita di questo disco da quasi due anni, da quando ha fatto breccia nella mia vita la prima versione di “R&B”, un pezzo confezionato a puntino per chi, come me, vede nei canoni del post-punk cantato con voce intonata, possibilmente femminile e con qualche ammiccamento soul, il non plus ultra, anzi il top, come si dice ora. La perfezione.

Da allora ho seguito con una abnegazione che spero qualcuno mi riconosca, prima o poi (un’applicazione vi assicuro ai limiti dello stalking) l’evoluzione di questa band, approcciando con ascolti attentissimi tutti i nuovi singoli che, battuta dopo battuta, nota dopo nota, smentivano l’appartenenza degli English Teacher al mio principale genere musicale di riferimento. Brani pensati per mettere alla prova gli appassionati veri, i cultori disinteressati di questo quartetto che, manco a dirsi, anziché indurmi a desistere, mi hanno intrigato sempre di più. In amore, si sa, è una tecnica consolidata.

Ho persino ricondotto l’esperienza degli English Teacher a quella dei Police, artisti che alle origini della loro carriera hanno sfruttato il punk in quanto genere più in voga ai tempi e, suonando volutamente in modo approssimativo (erano composti da un jazzista, un mostro di tecnica alla batteria e un session man di esperienza) sarebbero potuti risultare più accattivanti per il gusto dell’epoca.

Il punto è proprio che il post-punk, agli English Teacher, sta altrettanto stretto e, giunti all’ultima nota del loro straordinario ellepi di esordio, viene da pensare che l’aspetto post-punk, di tutta quella meraviglia, sia forse il meno rilevante, quello meno decisivo, considerata la bellezza e l’originalità di tutto il resto. E non ero certo solo io, sulle spine, nell’attesa della pubblicazione di This Could Be Texas. Un pezzo da novanta come Beyoncé ne ha incensato il valore poche ore prima dell’uscita, definendo gli English Teacher “di gran lunga la migliore nuova band del pianeta in questo momento”. Non sarò certo io a smentirla.

La tracklist di This Could Be Texas è perfetta e alterna gli ottimi spunti che hanno preceduto l’album con inediti assolutamente all’altezza. Con “Albatross”, il brano di apertura, l’opera spicca immediatamente il volo e non potrebbe essere altrimenti. Non delude le aspettative di chi non vedeva l’ora di avere tra le mani il disco e concentra i tratti principali della band a chi si approccia a loro per la prima volta. Emerge immediatamente tutta la bellezza della poesia di Lily Fontaine (sorprendente autrice dei testi, ottima vocalist e incantevole front woman del gruppo, il tutto in un’unica persona) e la sua personalità artistica a metà tra letteratura e musica, con liriche aspre e allo stesso tempo ricche di fascino, in cui trovano posto introspezione, quotidianità familiare e visioni surreali.

Ci sono quindi i brani che non stonerebbero in nessuna playlist dedicata al fiorente panorama neo post-punk britannico, a partire da “I Am The World’s Biggest Paving Slab”, in cui Lily Fontaine afferma di sentirsi la piastrella più grande del mondo ma anche la celebrità più piccola, un verso che, dopo questo esordio, siamo sicuri che presto non corrisponderà più alla realtà. In questa categoria rientrano a pieno diritto anche “I’m Not Crying, You’re Crying”, una hit alternative a tutti gli effetti, a metà tra lo spoken word di Dry Cleaning e le chitarre stoner dei Dinosaur Jr., l’ormai conosciutissima “R&B”, ovvero come rispondere con ironia ai pregiudizi di vivere con la pelle scura nell’industria musicale, e “Nearly Daffodils”, un modo originale per parlare d’amore che si caratterizza per un particolare fraseggio strumentale all’unisono (o quasi) che mette in luce tutta la tecnica e la creatività del resto della band, il chitarrista Lewis Whiting, il bassista Nicholas Eden e il batterista Douglas Frost.

Già solo con questa manciata di brani This Could Be Texas potrebbe conquistare il primato di disco dell’anno. Ma il bello deve ancora venire.

Il resto delle canzoni risultano composizioni fuori da qualsiasi cliché, difficilmente categorizzabili e che fanno degli English Teacher una delle band più originali in circolazione. Mi riferisco a “Broken Biscuits” e al suo sapore tutto dispari alla The Lamb Lies Down On Broadway degli ultimissimi Genesis, al disordinato indie folk di “Mastermind Specialism”, probabilmente il resoconto di una seduta di psicanalisi, alle ancor più evidenti citazioni progressive nella title track, con i suoi strappi resi con strumenti acustici e, quindi, ancora più forti e marcati e il travolgente crescendo strumentale della coda.

Fino all’apoteosi totale e finale, composta dalla struggente “The Best Tears of Your Life”, davvero una delle cose migliori mai sentite negli ultimi anni, dalle parole di incontrollata passione accompagnate dal piano e gli archi di “You Blister My Paint” (“Your overexposure makes my eyes weak/But I can’t look away, You’re so hot then you leave me”), dalla leggerezza pensata quasi in contrapposizione con il pezzo precedente di “Sideboobs”, una gita tra curve e colline con tutte le diverse accezioni del caso, per terminare con “Albert Road”, la ballad che non potrebbe stare altro che qui in chiusura, una sequenza di umanità (chissà se le persone di cui si parla sono le stesse che hanno partecipato al video, riprese nel pub) in rassegna lungo l’omonima via principale di Colne, la cittadina a un’ora di macchina da Leeds in cui Lily Fontaine è cresciuta.

C’è da chiedersi in che modo gli English Teacher sapranno restituire dal vivo quanto promesso in This Could Be Texas. Non dev’essere per nulla facile trasmettere una gamma di registri emotivi e musicali così ampia ed eterogenea. Se riusciranno (ne sono certo) potrò immolarmi definitivamente a loro. Per il momento, mi godo all’infinito questo capolavoro, sicuramente uno degli esordi più convincenti nella storia recente della musica inglese.

la sette

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 7/4.

chi rispetta le tradizioni americane

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Ora ditemi chi, in Italia, cucina il pollo così.

una volta qui era tutta campania

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Nel quadernone di matematica di Belen sembra che un ordigno sia esploso scaraventando numeri, parole e frammenti di essi alla rinfusa. Anche le figure geometriche hanno tutta l’aria di esser state bombardate: quadrilateri con tetti che crollano e pareti ridotte in macerie, e cerchi che ricordano le poltrone a sacco su cui perdeva l’equilibrio il buon Fracchia. E, tutto intorno, macchie di cancellature, strappi e buchi nei fogli, riconducibili al punto della deflagrazione di cui sopra. Se non fossimo persone che non si lasciano avvincere dal fascino della semplificazione e dei luoghi comuni, potremmo dimostrare che il disordine e l’incuria con cui gestisce il suo materiale riflettono perfettamente la situazione famigliare. Il padre (originario della provincia di Napoli, uno che si mette il gel e non si sa bene che lavoro faccia ma guida un’auto da serie Netflix sulla criminalità e sul profilo Facebook ha impostato una foto con la faccia parzialmente coperta dalla mano con il dito medio – tatuato – alzato verso l’obiettivo, diretto cioè verso il mondo e anche me) e la mamma (nata nel centroamerica e con quel piglio aggressivo di partenza, indipendentemente da quello che le devi comunicare) si stanno separando. Almeno così mi ha fatto comprendere la madre durante un colloquio a metà anno, anche se spesso li vedo recuperare Belen e il fratello, a cui hanno dato un nome altrettanto in linea con l’immaginario Mediaset, insieme.

Nonostante questo, Belen si conferma una delle mie preferite per due, anzi, tre motivi. Il primo è che pratica questo disinteresse totale per la scuola, in linea con i genitori che non credo abbiano mai firmato una delle disastrose verifiche della figlia, con una coerenza encomiabile. È così in tutte le materie e, dalla prima alla quinta, la mia collega ed io non dico che le abbiamo provate tutte ma ne abbiamo provate abbastanza, e quelle che abbiamo provato non hanno avuto alcun successo. Evidentemente, parlo per me, non sono all’altezza di suscitare a lei, e di conseguenza alla famiglia, il benché minimo interesse verso la scuola. Belen se la cava però straordinariamente in due cose, che coincidono con gli altri due motivi per cui la stimo. Intanto in Inglese è tra le migliori della classe, una materia che non studia come le altre ma che coltiva seguendo cartoni e serie tv in lingua e, soprattutto, frequentando l’umanità di TikTok.

Poi sa cantare alla perfezione le canzoni di Geolier. E quando scrivo alla perfezione è perché, oltre a conoscere a memoria tutte le parole dei testi che, come sapete, sono in dialetto stretto napoletano, è in grado di eseguire perfettamente tutte le mosse – principalmente studiate per gli arti superiori e il viso, in quanto pensate per TikTok – che le convenzioni di TikTok appunto impongono all’interpretazione delle canzoni dei cantanti di grido. E ancora, se non fossimo persone che non si lasciano avvincere dal fascino della semplificazione e dei luoghi comuni, legheremmo la sua principale peculiarità, una resilienza a ciò che comunemente riconduciamo al fallimento scolastico fuori del comune, a questo mix esplosivo tra le culture del papà e della mamma.

Forse perché per Belen non costituisce affatto un fallimento, il non aver raggiunto un obiettivo che è uno in matematica, da quando la conosco. La materia prima della sua resilienza fuori dal comune è stare su un pianeta che non è lo stesso in cui abitiamo noi insegnanti, i compagni, in cui c’è un edificio scolastico con le aule e i suoi laboratori. Belen vive in una dimensione parallela in cui queste cose sono invisibili, un secondo pianeta Terra fatto e finito esattamente come il nostro dove però non si studia per acquisire le competenze che poi, nella vita, permettono di vivere indipendenti dagli altri e da tutto. Un secondo pianeta Terra in cui si va in crociera con il papà per dieci giorni così, durante lo svolgimento regolare delle lezioni, senza avvisare nemmeno i docenti. Ma mica per altro, giusto per non farli preoccupare, se l’avessimo saputo prima di certo non le avremmo dato dei compiti da svolgere per non rimanere indietro, anche perché tanto non li avrebbe fatti.

berta dai grandi piedi

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Era la prefazione di uno dei testi previsti nel corso monografico della prof.ssa Petti Balbi per gli studenti iscritti al suo esame che ci andava giù per il pesante contro il medioevo. A nessuno altrimenti sarebbe mai venuto in mente di guardare a quel millennio o giù di lì con così immotivato sospetto. Possibile che l’umanità in un arco di tempo così ampio non sia riuscita a produrre almeno una cosa buona? Eppure, nonostante questo terrorismo psicologico a cui siamo soggetti indipendentemente se, con la storia, ci fermiamo alla terza media o la scegliamo come disciplina di base per la nostra tesi di laurea, non c’è periodo a cui noi italiani siamo affezionati più del medioevo e ve lo dimostro.

Intanto non c’è città dalle nostre parti, ad eccezione di qualche esperimento urbanistico fallimentare del mascellone pelato giustamente appeso a testa in giù, che non abbia un’ossatura medioevale o un centro storico, per non parlare dei borghi più belli d’Italia che proliferano nelle trasmissioni della tv di stato, anzi di patria, in cui se magna e se bbeve conciati come dei pagliacci, anzi, come dei giullari di corte. Non c’è esperienza più ambita dagli italiani se non quella di abbuffarsi di piatti della tradizione in una taverna come quelle di una volta (inteso come quelle dell’anno mille) preparata con i prodotti della tradizione seguendo le ricette della tradizione.

E, nella nostra epoca caratterizzata dall’individualismo più esasperato ed esasperante, non c’è modello sociale più affascinante della granularizzazione causata dalla forza centrifuga del fuggi fuggi generale nel medioevo, in un momento in cui ciascuno fa per sé scrollandosi di dosso ogni responsabilità che deriva dal legame con un nucleo famigliare, un condominio, un quartiere, un paese o una città, una provincia, una regione, uno stato, un continente, il mondo intero, il sistema solare, la via lattea e l’universo stesso. E se non siamo tornati nelle caverne è perché ai tempi, io lo so bene perché le frequentavo, ci si muoveva in branco come bestie qualsiasi. Vuoi mettere una sana e basica esperienza di isolamento rispetto a tutti quei colori e a quel progresso con cui quelli del rinascimento sono poi arrivati a romperci i maroni? E poi, a quei tempi, le donne sapevano stare al loro posto, meglio tornare a un più salutare oscurantismo.

Non solo. Ci sono molte affinità tra i bestiari e gli unicorni dei tempi con tutte le fandonie di cui ci siamo riempiti l’immaginario del duemila. Le scie chimiche, i complotti, le dietrologie, per non parlare di tutte le superstizioni e i riti con cui ci riempiamo le giornate. L’ultima che ho letto è che c’è gente che pensa che i nostri antenati usino gli animali domestici come vettori per starci vicino e proteggerci, per quello che riescono a fare. Non si tratta di una reincarnazione, ma di veri e propri involucri in cui si alternano per osservare quello che facciamo. Non so chi ci sia, in questo momento, dentro alla mia gatta, di certo qualcuno che, quando era in carne e ossa, vomitava spesso. Quando, durante il lockdown, praticavo un po’ di ginnastica in salotto, manifestava la sua preoccupazione salendomi addosso per impedirmi gli esercizi più faticosi. Lo so cosa state pensando: ci controllano di più gatti e cani o i dispositivi che portiamo con noi? Anche questa è una tematica che non avrebbe sfigurato ai tempi dei draghi e dei castelli. È solo per un caso che il mio smartphone non fa altro che propormi app di allenamento con la sedia. Vedo solo anziani dagli addominali super definiti – maschi alfa rigorosamente tatuati e con le barbe che usano oggi – che si tengono in forma con esercizi a corpo libero da seduti. E non scrivo “calistenico” perché, altrimenti, anche questo spazio si riempirebbe di pubblicità profilata.

ballare a bocca chiusa

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La citazione mi è arrivata. Bella.