The Cure – Songs Of A Lost World

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Ho visto This Must Be The Place, il film di Paolo Sorrentino, solo una volta, più di dieci anni fa. Non è certo il lavoro più riuscito del regista de Le conseguenze dell’amore, e probabilmente nemmeno una pellicola così memorabile, ma i The Cure sono la mia band preferita. Ecco perché non dimenticherò mai la scena finale. Sean Penn nei panni di Cheyenne, la trasposizione cinematografica di un Robert Smith alle soglie della terza età, che raggiunge a piedi la casa della madre dell’amica Mary e scambia con lei alla finestra uno sguardo d’intesa. La star degli anni ’80, senza trucco, ora ha i capelli corti e grigi, indossa abiti più che ordinari, e completa con quel gesto il suo percorso di redenzione.

Ci troviamo al cospetto di un’opera di fantasia che però assolve a un compito ben preciso, quello di colmare il profondo gap che va da Wish a Songs Of A Lost World. Un salto quantico di trentadue anni durante i quali è successo di tutto. Intanto ci sono stati quattro dischi tutto sommato irrilevanti (se nei live di presentazione del nuovo album alla BBC e al Troxy non c’è traccia, un motivo ci sarà) nonostante i quali la popolarità di Robert Smith e soci si è ampliata a dismisura fino a raggiungere livelli di cui la Rock & Roll Hall of Fame forse è il riconoscimento più trascurabile.

Nel 2024 è fuori discussione che i The Cure occupino il piano più alto nell’olimpo delle star del rock alternativo. Sono la band più influente della storia e la meticolosa e intelligente operazione di marketing che ha preceduto il ritorno sulle scene con Songs Of A Lost World c’entra, ma solo in parte. Robert Smith con le sue faccette e le sue moine, nei video delle sue canzoni più iconiche, è tra le cause principali di fenomeni come la diffusione del nuovo post-punk e dell’inarrestabile e acritica retromania nostalgica per gli anni ottanta soprattutto da parte di chi non li ha vissuti, per non parlare della pervasiva diffusione del mito della band grazie alle sottoculture della rete e dei social.

Gli ultimi sedici anni, poi, quelli che invece separano Songs Of A Lost World da 4:13 Dream, hanno visto i The Cure assidui headliner di palchi e festival in tutto il mondo, per non parlare della loro agiografia su Youtube (in lungo e in largo, sia nella dimensione dello spazio, sia in quella del tempo) con esibizioni e apparizioni in cui il loro passato glorioso, quello più amato dai fan e che si conclude dalle parti di “Friday, I’m In Love”, non ha mai smesso di essere beatificato e rimpianto.

Ecco perché non c’è nulla come la scena finale di This Must Be The Place di Paolo Sorrentino che soddisfi una delle mie fantasie più audaci. Sean Penn/Cheyenne/Robert Smith pettinato e vestito da persona normale mi fa illudere sul fatto che sia prevista davvero una terza età per le star, una stagione della vita in cui i musicisti si tramutano in normali persone anziane come qualunque altro impiegato del catasto e non in anziani musicisti, non so se mi seguite.

Una stagione in cui i cantanti vanno in pensione, anziché suicidarsi prima o morire di overdose a ventisette anni. Un momento in cui sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti alla loro attività e che presenta, anche per chi suona per mestiere, le stime per sancire quando sia il momento di fermarsi (che poi farebbe bene in primis ai musicisti stessi, a quel certo punto della loro vita, il fermarsi).

Un nuovo corso, in cui cose come andare a far la spesa o riabbracciare i nipotini all’uscita da scuola impongono il superamento del look da cosplayer del rock o del dark o di quello che volete e, con addosso una felpa in pile come tutti i vecchi le cui mogli non hanno giustamente più voglia di stirare camicie, frequentano il circolo del burraco, praticano il pilates e cercano il riparo al fresco dei centri commerciali, seguendo il palinsesto della sopravvivenza alle estati sempre più roventi, imposto dai tg.

Il punto è che Robert Smith ha paura di invecchiare (come biasimarlo) almeno da “Sinking”, epocale brano di chiusura di The Head On The Door, e si sentiva anziano persino il giorno prima di comporre “In Between Days”, ma sono pronto a scommettere che segnali analoghi sono rintracciabili anche in dischi precedenti. Per non parlare di Disintegration e, dopo, di Bloodflowers, album in cui la morte è il tema ricorrente. E probabilmente va ricondotta a questa ossessione condivisa la necessità di conciarsi sempre uguale a se stesso, anzi, al suo travestimento da Robert Smith, con i pochi capelli rimasti cotonati e l’eyeliner, ancora oggi, a 65 anni suonati.

E se considerate che di dischi di addio alle scene dei The Cure ce ne sono già stati almeno tre, per non parlare della quantità di “Endsong”, quelle ultime tracce e finti addii che poi sono commoventi arrivederci, ci dev’essere un demone in Robert Smith che lo spinge, con una sorprendente ricorrenza, a ribadire a se stesso questo concetto. Siamo mortali, anzi, mortalissimi. Siamo destinati a disintegrarci, un giorno di questi, e quel giorno lo affronteremo comunque da soli. Indossare una maschera ci aiuta ad allontanare chi e che cosa diventeremo e a rinnovare lo stesso rito sul palco, per noi stessi e per quello che rappresentiamo per i nostri seguaci. Non so dirvi se ciò sia la soluzione al problema, ma da un certo punto della vita in poi, a quanto sembra, funziona.

Chi ha partecipato ai pre-ascolti di warm-up propedeutici all’uscita del disco (come se ce ne fosse davvero il bisogno, per una band così importante) ha scritto che Songs of A Lost World è il miglior album dei The Cure dopo Disintegration. Io mi dissocio. È il miglior album dei The Cure dopo Wish, che non ha nulla da invidiare al suo predecessore. La formula di Songs of A Lost World è però la stessa dei quattro dischi pubblicati da allora ma, a differenza degli altri, è un disco che ce l’ha fatta.

Otto eterne non-canzoni dilatate secondo flussi più o meno ricorsivi di componenti indistinguibili. Lunghe e suggestive intro strumentali, arrangiamenti ridotti al minimo con tappetoni di tastiere, strofe e ritornelli intercambiabili, melodie che non aggiungono granché alla straordinarietà delle struggenti ballate gotiche che compongono il disco, code trascinate come quei saluti finali che nessuno vorrebbe mai estinguere davvero, in un incedere suonato da musicisti legittimamente e meravigliosamente affaticati dalla propria età artistica e anagrafica.

E, al contrario dei capolavori nati nell’età dell’oro in cui si è consolidato il mito di Robert Smith, è un lavoro completamente privo dei ritornelli catchy e di quella disorientante scanzonaggine pop dei singoli dei The Cure che hanno fatto la storia e che, in questo eterno presente, compongono quotidianamente le prime pagine dei nostri social sotto forma di meme. Stesso discorso per certi ritmi sostenuti, in Songs Of A Lost World del tutto assenti, che hanno spalancato le porte dei club alla loro musica, quei brani danzerecci punti fermi di qualunque playlist che si rispetti per chi paga per ballare un po’ di musica alternativa. Ma forse la maturità musicale è proprio questa: un taglio con il passato per un compromesso con il futuro. Anche se, dal vivo, i The Cure attingono ampiamente dai fasti di un tempo (a partire dai 45 anni di Seventeen Seconds) e tengono il palco con una forma e una compattezza che non ha confronti.

È bene che siate consapevoli di tutto questo prima di approcciare Songs of A Lost World, un bel disco di un gruppo di artisti anziani che suona e canta canzoni di un mondo perduto, musica da vecchi e destinata a vecchi, ma (credetemi) nell’accezione migliore di tutto questo. C’è la sensazione di essere soli e vicino alla fine di “Alone”, un modo di comporre intro per i suoi dischi con i quali Robert Smith ci vizia da sempre, subito smentita dalla promessa di stare vicino al prossimo sino alla morte di “And Nothing Is Forever”. Ci sono i rimpianti di “A Fragile Thing” e i conflitti che svuotano le relazioni di “Warsong”. La paura delle complessità del presente di “Drone:Nodrone” e la perdita dei propri cari di “I Never Can Say Goodbye”. L’insicurezza di sé di “All I Ever Am” e il commiato di “Endsong”, simmetrico per le sue tematiche alla traccia di apertura, la paura di invecchiare in un mondo alla deriva.

Tematiche dark da manuale, al limite dello stereotipo, sotto tutti i punti di vista, che, nel 2024 e nello status quo delle cose, meritano molta più dignità che allora, e che solo la sensibilità di un artista più che maturo riesce a rendere in pieno: “Left alone with nothing at the end of every song. Left alone with nothing, nothing, nothing”, ripetuto all’infinito quasi come l’ad libitum di “again and again and again” di “A Forest”, quando si correva verso il nulla e una ragazza mai esistita. Ed è per questo che la maschera di Robert Smith, il trucco di quell’adolescente che contemplava la luna sul volto dell’anziano che si trova a fare ancora altrettanto, che a differenza del Cheyenne di This Must Be The Place non si concede e non ci concede nessuno sguardo di intesa finale (tantomeno una redenzione) vista da qui, oggi, non ha più senso di esistere.

retrocessione

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Stamattina riflettevo sul fatto che pochi settori di per sé strategici come la scuola sono scollegati dal resto dell’economia. Non si tratta certo di una conclusione a cui sono giunto così all’improvviso, perché lo penso da sempre e so che lo sapete bene anche voi. Ho vissuto però, nel giro di un paio di giorni, due episodi apparentemente differenti tra di loro che confermano tutto ciò, fermo restando che alla base c’è una questione di stato d’animo o umore, chiamatelo come volete. Voglio dire che ci accorgiamo di certe cose solo quando abbiamo una predisposizione emotiva adatta a percepirne la portata. Sul primo episodio c’è poco da dire. Ho un bimbo quest’anno nella mia prima a cui avrebbe fatto bene ancora un anno alla scuola dell’infanzia. Lunedì pomeriggio, mancava una ventina di minuti al termine delle lezioni, per farla breve se l’è fatta addosso – la cacca – ma in un modo a dir poco rocambolesco e con un impatto devastante per il bagno e su di sé, non vi sto a raccontare i dettagli ma non avete idea di come si è conciato. Il secondo è accaduto invece poco fa: ogni tanto faccio un giro su LinkedIn e, probabilmente a causa dei (o grazie ai) miei trascorsi professionali, ma di colleghi non c’è manco l’ombra. Poi mettici l’età anagrafica, intendo la mia, e il fatto che a scuola non funziona mai nulla: la dimensione organizzativa, il flusso della comunicazione, i proiettori delle LIM, il recruiting del personale, le linee guida del Ministero e dell’Ufficio Scolastico, la formattazione del testo nelle email dei colleghi. Ecco, se c’è un campionato mondiale dei settori industriali e professionali, chi lavora come me nella scuola milita in prima divisione, o in promozione per parlare in linguaggio calcistico, o comunque la serie più dilettantistica che c’è.

disclaimer – una trama imperfetta

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Si gioca così: si accende il pc, si va su Facebook e si commenta il primo post che capita in home con l’ultima cosa che si è detta prima di aprire il computer. A me è toccato un articolo di pseudoscienza dedicato a quel posto del Minnesota in cui si sta testando il sistema di accumulo di tutto il caldo estivo in eccesso che poi viene rilasciato durante i mesi invernali e, viceversa, la possibilità di immagazzinare le temperature rigide dei mesi freddi da rilasciare per mitigare le giornate più torride della bella stagione. Una tecnologia ricordiamo a impatto meno di zero perché non consuma nessun tipo di energia rinnovabile o fossile che però corre il rischio di normalizzare in eccesso il clima, generando lunghe primavere di dodici mesi con giorni tutti uguali che, alla lunga, potrebbero rompere i maroni. Manco a farlo apposta, avevo appena discusso con mia moglie della miniserie tv che ci siamo bruciati in una sera, i cinque episodi di “Disclaimer – La vita perfetta”, scritta e diretta da Alfonso Cuarón, un argomento che, appunto, si trova agli antipodi dell’ingegneria della termoregolazione e che mi ha consentito di guadagnare 10 punti netti al Fantasocial, balzando in testa tra i miei compagni di torneo.

Comunque, con mia moglie, io andavo sostenendo che la trama di “Disclaimer” non sta in piedi ma, nel commento che ho postato e che riporto qui sotto, c’è un’elevata concentrazione di spoiler quindi il mio, di disclaimer, è che questa riga è l’ultima possibilità che vi resta per cambiare lettura prima di rovinarvi l’esperienza di visione.

Il romanzo della scrittrice Renée Knight, da cui è tratta la serie, è stato pubblicato nel 2015. Possiamo supporre la sua gestazione e la conseguente ambientazione almeno intorno al 2010. Nicholas, durante lo svolgimento dei fatti, ha 25 anni. Ai tempi del viaggio in Italia in cui Jonathan ci lascia le penne ne aveva 4, quindi Jonathan e Catherine vivono la loro infuocata notte di sesso venti anni prima, ipotizziamo nell’estate del 1990 circa. Ne conseguono alcune grossolane approssimazioni di ricostruzione storica. L’ostentazione di “Ti amo” di Umberto Tozzi come commento musicale in grado di evocare una sintesi dei luoghi comuni sui flirt consumati nella cornice delle località balneari delle estati italiane è fuori contesto. Nel 90 o giù di lì gli anni 70 erano finiti da un pezzo e nessuno si sarebbe sognato di ascoltare quel vecchiume, il revival di “Anima Mia” e compagnia cantante era ancora lontano da venire.

La storia poi inizia con Jonathan e Sasha che trombano nello scompartimento di un vagone letto di un Eurocity. Si vede il controllore entrare senza preavviso, cogliendo i due sul fatto, un’intrusione che non sta né in cielo né in terra. Ma non è tutto. Jonathan, più di una volta, si fa i selfie a Venezia con una macchina fotografica tradizionale con tanto di mega-obiettivo, cosa che a nessuno sarebbe mai venuta in mente. In primis, in quanto gesto sconveniente secondo qualunque principio dell’ergonomia: le fotocamere di una volta erano tutt’altro che maneggevoli e pratiche per puntarsele contro. Senza contare che, prive del display nella parte anteriore, la possibilità di inquadrarsi e regolare la messa a fuoco manuale dell’obiettivo – per non parlare di non riuscire nella foto con una faccia da idiota – è pressocché impossibile. Piuttosto, Jonathan e Sasha avrebbero potuto fermare qualcuno, come si faceva ai tempi in cui eravamo ancora animali sociali dal vivo, e chiedergli di scattare una foto. A Venezia quindi c’è un altro svarione anacronistico di sceneggiatura: il conto della navigazione sulla gondola gli viene calcolato in euro anziché in lire. Vabbè, questo dettaglio è da ossessivo-compulsivi e facciamo finta di niente, e comunque potrei sbagliarmi io.

Non posso invece soprassedere sulla prestazione di Jonathan nella trombata di cui sopra. Il ragazzo conclude in anticipo il suo apporto, rispetto alla partner, un passo falso dovuto all’irruenza tipica dei diciannove anni e che si ripropone qualche sera dopo a letto con Catherine, e fin qui non c’é nulla di sorprendente. In entrambi i casi, però lo si vede riprendere con successo la performance senza soluzione di continuità, in un caso a quanto sembra senza nemmeno sottrarsi almeno per una veloce pulizia delle parti coinvolte, una scena di fanta-erotismo che contribuisce a diminuire la portata di credibilità della storia. Una tecnica che per qualcuno può riflettere fedelmente la normalità, ma non per lo spettatore maschile medio, che già a fatica porta a compimento la prima sessione in modo soddisfacente, figuriamoci la seconda e senza nemmeno un adeguato tempo di recupero.

Poi non è per nulla convincente tutta la questione del libro. Catherine riceve una copia di “The Perfect Stranger” nel primo episodio e ne rimane sconvolta. Il modo in cui il marito Robert sottovaluta lo stato di choc di Catherine non è per nulla credibile, se consideriamo la devozione e l’attenzione che pone nei suoi confronti. Un compagno di vita di quel tipo, come minimo, osservando la reazione della moglie, si sarebbe subito precipitato a leggere il romanzo. Ma, se fosse andata così, un personaggio intelligente come Stephen avrebbe collegato immediatamente le vicende della protagonista con la vita di Catherine, e la serie sarebbe finita lì, alla prima puntata.

Senza contare la coincidenza del ritrovamento della seconda copia del libro nel negozio in cui lavora Nicholas. Nel giro di qualche giorno una madre e un figlio ricevono misteriosamente lo stesso romanzo – un libro peraltro di self-publishing – e nessuno si insospettisce? Ho trovato poco chiara anche la stesura stessa di “The Perfect Stranger”. Nancy – la madre – non ha nessun contatto con Catherine nei giorni successivi alla morte di Jonathan. Mi chiedo quindi come abbia fatto a descrivere minuziosamente i dettagli erotici tra Catherine e Jonathan senza che nessuno glieli avesse mai raccontati. E la stesura doveva essere decisamente fedele ai fatti, se osserviamo la reazione di Catherine dopo la lettura. Come è possibile che abbia scritto la storia per filo e per segno fantasticando solamente sulle stampe delle foto scattate dal figlio? Infine, quando Stephen – il padre di Jonathan – allestisce la libreria di riferimento di Catherine con svariate copie del romanzo, il comportamento della proprietaria nell’organizzazione della presentazione del libro risulta inverosimile.

Anche il modo in cui Stephen, nel primo episodio, trova la chiave del cassetto della scrivania di Jonathan in cui la moglie ha conservato le bozze dattiloscritte del libro fa acqua da tutte le parti. La chiave è in una borsetta che cade dal fondo dell’armadio di Nancy dopo che Stephen lo svuota dai vestiti della consorte. Stephen sostiene che Nancy abbia voluto fare in modo che lui trovasse la chiave, e quindi il romanzo. Ma, se davvero fosse stato davvero così, non l’avrebbe certo nascosta in punto che solo un evento totalmente casuale gliela avrebbe fatta scoprire. Piuttosto, semmai, il contrario: Nancy, stremata dal dolore per la perdita del figlio e successivamente dal cancro, si pente in punto di morte di aver scritto il libro e cerca di nasconderlo al marito proprio per evitargli inutili ulteriori sofferenze e rischiose conseguenze.

Un altro aspetto che ha deluso le mie aspettative è stata la conferma che Jonathan è davvero morto annegato per salvare Nicholas, mentre tutto mi faceva pensare (o almeno fino alla fine ho sperato) che, in realtà, Catherine avesse avuto un ruolo attivo nell’uccisione del suo amante e potenziale stalker in grado di distruggere la sua famiglia perfetta. Certo, esimendosi dal dare l’allarme ai bagnini sul pericolo in corso in mare ha contribuito alla morte del ragazzo. Ma la cicatrice sul braccio di Nicholas, notata dai genitori al momento del riconoscimento del cadavere, per un po’ ha lasciato spazio all’immaginazione di un colpo di scena.

Mi è sembrato molto forzata, infine, la dinamica del contatto su Instagram conclusivo tra Nicholas e il profilo fake di Jonathan gestito da Stephen e il loro scambio di messaggi, nell’ultimo episodio che sancisce l’atto finale della tragedia che condannerà Nicholas, al culmine della disperazione, al sacrificio di sé e alla redenzione. L’uso manipolatorio dei social non è affatto realistico e la scena non è approfondita a sufficienza, per non dire troppo frettolosa.

E poi, obiettivamente, una messa come Leila George D’Onofrio in quale film ti invita a salire in camera in quel modo?

intervallo

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Sono curioso di sapere chi ha inventato la colonna sonora. Immagino lo stesso che ha pensato che i film muti sarebbero stati pallosi in quel silenzio totale e che quindi assoldare pianisti in grado di conferire valore aggiunto con esecuzioni live alle immagini potesse essere una buona idea. Poi da lì la cosa deve aver preso una deriva incontrollata. Il piano è stato sostituito da intere orchestre sostituite poi a loro volta dai computer dei sound designer.

Il punto è che, nel frattempo, le immagini si sono arricchite dei dialoghi che hanno decretato l’obsolescenza dei cartelli inseriti tra una scena e l’altra con le battute della sceneggiatura, avete presente? Sicuramente hanno un loro nome ma non sono del mestiere quindi stateci. Il risultato? Immagini più voce dei protagonisti più musica uguale botta emotiva senza precedenti e il prodotto finale diversificato tra l’iper-realtà del grande schermo corredata dal sorround per un effetto immersivo mostruosamente coinvolgente, oppure stravaccati sul divano con Netflix acceso sacrificando la maestosità delle immagini macroscopiche alla comodità di non mettere il naso fuori di casa, rinunciare alla puzza dei popcorn e non farsi venire il nervoso per chi chiacchiera durante la proiezione al cinema o chi ogni tanto dà un’occhiatina allo smartphone o, non so dire peggio o meglio dei precedenti, a quelli che si lavano poco.

A questo punto della nostra civiltà vedere foto o riprese video senza un commento musicale sotto ci sembra una cosa completamente innaturale, tanto che, quando succede, ci preoccupiamo subito di controllare se il driver delle casse è da reinstallare o se abbiamo inserito per sbaglio il mute o se siamo diventati all’improvviso sordi o comunque, nel dubbio, spegniamo e riaccendiamo. Ormai siamo talmente abituati che non potremmo fare a meno di avere una colonna sonora di qualsiasi cosa ci venga proposta, anche se poi molto spesso non facciamo nemmeno caso alla musica. Ma vuoi mettere la sicurezza di non provare l’imbarazzo del silenzio assordante del vuoto.

Anzi, a volte, quando guardiamo una slideshow di foto o una storia sui social, i brani scelti con troppa personalità ci disturbano e rimpiangiamo quei bei sottofondi di un tempo composti in serie da esseri umani e oggi dall’intelligenza artificiale.

La best practice più attuale dell’accompagnamento di immagini con canzoni contestuali è il programma “Casa a prima vista”, avete presente? Mentre gli agenti immobiliari mostrano le loro proposte, o meglio le cosiddette “soluzioni”, a ogni descrizione di edifici, di ambienti e di arredo è associata una canzone che riprende il succo di quanto viene detto, se non addirittura parole chiave dei dialoghi in una maniera esageratamente didascalica. Vi faccio un esempio. Qualche sera fa, a proposito di un bagno definito dagli agenti di stile italiano, la descrizione è stata montata su “L’italiano” di Toto Cutugno, ma non crediate che funziona solo con brani triti e ritriti. Una coppia appassionata di due ruote vintage è stata anticipata da una vera chicca del beat nostrano, e mi riferisco alla canzone “La motoretta” degli Scooters.

Questo impeto di ridondanza mi ha fatto così riflettere sull’urgenza di un sound designer universale che scelga per voi canzoni più adatte a ogni frase che pronunciate o ogni spazio in cui vi ritroviate. Detto fatto. Mi sono candidato a questa posizione e, da lunedì scorso, questo è il mio nuovo lavoro. Non avete notato che a ogni cosa che dite c’è un brano sotto che ne aumenta il valore, il senso o la portata persuasiva? Tutto grazie a me e alla piattaforma che ora gestisco dalla mia postazione: una consolle virtuale da cui ho accesso alla banca dati infinita (più infinita di Spotify) delle musiche composte da quando l’uomo ha scoperto l’efficacia di mettere insieme due o più suoni, che ora è interconnessa alla timeline delle vostre vite. E non dovete nemmeno effettuare l’accesso, quindi niente credenziali. Faccio tutto io. Il DJ universale, che poi era da sempre la mia aspirazione totale globale, ricordate?

Ecco: la sentite la musica sotto? Sono io che l’ho messa, in perfetta linea con quello che state facendo, e se vi mettete in punta di piedi mi potete vedere, laggiù. Sono quello con le cuffie bianche. Spero che il mio approccio sia di vostro gradimento. Scordatevi le scelte banali, scontate e telefonate. Da me solo canzoni di qualità contestuali quanto basta, in modo molto discreto. Per richieste particolari, potete scrivermi anche solo commentando qui sotto.

diego

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Voi che avete inventato le luci di posizione anteriori verticali che quando sono accese, di notte viste nello specchietto retrovisore, danno alle automobili le sembianze di una tigre dai denti a sciabola che vi rincorre e, se siete anziani e avete un Yaris ibrida con la ripresa di uno scooter monomarcia, voi siete la preda, in un mondo in cui la gente è sempre più fuori di testa e utilizza la macchina come transfer per sublimare la propria aggressività, voi che avete inventato le luci di posizione anteriori verticali non avete avuto una grande idea.

alone

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Una cosa che manda in brodo di giuggiole i genitori sono gli insegnanti che fanno ascoltare i Beatles in classe. Non ho abbastanza elementi per dimostrare se si tratti di una best practice pedagogica consolidata o semplicemente di una leggenda metropolitana, tanto quanto l’esposizione a Mozart degli esseri umani sin dalla fase pre-natale che ci renderebbe più intelligenti, men che meno di un metodo di mia invenzione.

Da attempato musicologo trombone posso solo dimostrarvi l’interdisciplinarietà del valore dei Beatles, nella fascia di età della scuola primaria. Sono utili se insegnate inglese, ovviamente, perché vi permettono di coniugare lo sviluppo dell’orecchio alla pronuncia perfetta con un dizionario adatto a qualunque esigenza, per non parlare di ciò che il quartetto di Liverpool rappresenta, ossia un’icona inconfondibile della cultura e della civiltà britannica. Sono utili se insegnate musica, perché rendono superfluo il ricorso alle zecchinate d’oro per l’intrattenimento dei più piccoli e intercettano le derive tamarre, nel migliore dei casi verso la trap di periferia ricca di parolacce, nel medio dei casi verso il pop in quota Annalisa e battiti live vari, nel peggiore dei casi verso i balli di gruppo da oratorio/club vacanze, grazie alla portata di un’alternativa convincente, comunque popolare, decisamente autorevole, poco di nicchia, tutt’altro che superata e di facile ascolto. Sono utili anche se insegnate italiano – i loro testi grondano di citazioni utili a semplificare grandi questioni, una volta tradotti – e perché no storia, in quanto perfettamente ascrivibili a un periodo decisivo per la modernità. Per non parlare del cartone animato di Yellow Submarine, provate a proiettarlo in classe e godetevi le reazioni.

Ma mai avrei immaginato che il mio vezzo di introdurre le lezioni con una sigla, una canzone dei Beatles – siamo partiti con la classica “All Together Now”- da variare ogni mese per catturare al meglio l’attenzione dei bambini, avrebbe generato una così invidiabile sintonia con i genitori della seconda C, la classe in cui insegno solo inglese. Le famiglie sono i principali stakeholder della scuola, metterli al corrente nel corso delle assemblee di classe di quello che facciamo costituisce un insuperabile veicolo di customer satisfaction. Ho presentato il programma nemmeno fossimo all’università – in seconda sono previste due ore la settimana, una in più rispetto alla prima – e senza volerlo ho centrato in pieno le aspettative rispetto all’insegnamento della lingua straniera, oggi secondo solo alle STEM come ossessione didattica della scuola dell’obbligo. Un papà ha detto che proporre i Beatles ai bambini gli sembra un’idea fantastica, tutti gli altri hanno confermato di trovarsi d’accordo, una mamma dichiaratamente metallara mi ha chiesto addirittura che cosa pensavo di far ascoltare nei prossimi anni. Non le ho detto che con i metallari noi dark ci menavamo, anzi i metallari menavano noi, negli anni ottanta, non mi sembrava la sede più adatta. Ma non è questo il punto.

So di deludervi, ma a me l’idea di somministrare una seconda lingua a mocciosi che a malapena si sanno esprimere nella prima non convince per niente, e mettere musica in inglese mi sembra comunque un modo efficace per perdere un po’ di tempo a lezione. Alla fine l’inglese per bambini così piccoli si risolve in una serie di istruzioni e parole tradotti letteralmente da imparare a memoria. Se va bene così, allora non c’è problema anche da parte mia. Un bagaglio a mano linguistico utile a sguinzagliarli da soli ad acquistare gelati in occasione delle prossime vacanze all’estero che farete. Un consiglio però: controllate che sappiano farsi restituire il resto corretto.

Il problema sono semmai le foto in bianco e nero, dei Beatles. Com’è possibile che siano esistiti giovani negli anni 60?, sembrano chiedere i bambini. Com’è possibile che delle canzonette pop siano state composte quando i nostri nonni erano appena nati? Quanti anni hanno, ora, quei capelloni?

Io sono uno che non indora certo la pillola, faccio eccezione solo per Babbo Natale ma non ho nessun problema a dire tutte le altre verità. Paul ha 82 anni, Ringo 84, George è morto a causa di un tumore e John è stato addirittura freddato da un folle mitomane a 40 anni, davanti a casa sua. Spoilero immediatamente come stanno le cose per evitare il susseguirsi di domande morbose su argomenti che interessano tantissimo i bambini di quella fascia di età e tagliare corto.

Questa volta però c’è stato un plot twist che devo assolutamente raccontarvi. Ginevra, quella che siede nel secondo banco, è piena di tic perché a 4 anni è stata dimenticata sullo scuolabus che la portava alla scuola materna. Ha trascorso tutta la mattina chiusa nel deposito fino a quando qualcuno è riuscito a ricostruire la catena degli avvenimenti, l’ha riportata a casa e sono state avviate tutte le procedure del caso per attribuire la scala delle responsabilità. La mia è una scuola di un comune di quattro gatti, e questa notizia ha fortunatamente fatto passare in secondo piano quella – decisamente più sconveniente per l’istituzione che rappresento – del nonno che ha sbagliato a ritirare il nipote giusto. Ha preso un bambino e, sulla via di casa, qualcuno che lo ha rincorso gli ha fatto notare il qui pro quo.

Dicevo che Ginevra, tra un tic e l’altro, scesa l’attenzione sulla morte dei Beatles, mi ha chiesto se i musicisti quando diventano vecchi vanno in pensione. Volevo dirle che sarebbe una cosa fantastica perché significherebbe che quello del musicista è un lavoro, che i musicisti arrivano a un certo punto della loro vita senza morire di overdose o suicidarsi a ventisette anni e che, a quel punto della vita, sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti anche alla loro attività e che fa anche per i musicisti i calcoli per capire quando è il momento di fermarsi. Che poi sarebbe un bene che i musicisti, a quel certo punto della loro vita, si fermassero. Volevo dire a Ginevra che avevo la risposta, o meglio che le avrei risposto solo dopo aver ascoltato il nuovo disco dei Cure che sta per uscire, tra qualche settimana. Avrò le idee più chiare sul fatto che i musicisti sanno riconoscere davvero quando è il momento giusto per andare in pensione.

lettera testamento

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Se posso sostenere – e mi è già capitato più volte – di svolgere finalmente un mestiere in cui esiste gente che va in pensione, al contrario la scuola non è certo il primo ambiente professionale in cui compiango colleghi che ci lasciano, più o meno all’improvviso. Il che è paradossale perché dal mondo della comunicazione in cui operavo prima, popolato per lo più da giovani che lavorano in agenzie in sedi fighissime del centro, non ti aspetteresti mai di rientrare in ufficio un lunedì, di essere convocato dal tuo responsabile per essere messo al corrente della tragica fine del tuo grafico web poco più che ventenne a causa di un fuoripista in snowboard – e in acido – sulla neve nel finesettimana, e di doverlo comunicare al resto del team. La morte di un collega è piuttosto una trama che l’immaginario comune ambienta più comodamente tra le grigie aule di edilizia scolastica anni settanta di un istituto comprensivo di provincia con squallidi pavimenti di piastrelle di graniglia, veneziane rotte su finestre dalle maniglie difettose, muri scrostati e costellati da fori che nessuno tapperà mai da cui spuntano tasselli inutilizzati che nessuno rimuoverà mai, infiltrazioni dal soffitto e lampade al neon che sfarfallano durante le grigie lezioni invernali delle prime ore della mattina.

Il flusso della comunicazione top down non cambia, però. Alla vigilia del primo ponte dell’anno scolastico (al paesello in cui insegno il primo lunedì di ottobre è festa patronale) sono stato incaricato dalla mia dirigente di riportare agli altri docenti la notizia del lutto inaspettato che ha colpito la nostra comunità scolastica. E se è possibile individuare una nota positiva in un funerale alle tre del pomeriggio di un sabato di ottobre con il sole è l’offerta di spunti di riflessione, a partire dall’età della vittima (la collega è mancata poco più che cinquantenne, una vera tragedia).

Le cause del decesso sono al limite dell’incredibile, e non è certo questo il luogo più adatto a parlarne. Posso solo raccontarvi il finale della cerimonia, il momento in cui un genitore della sua ex quinta (la collega aveva terminato come me il ciclo, lo scorso anno) è salito sul pulpito e ha fatto partire dal suo smartphone, avvicinato al microfono da cui il prete aveva da poco terminato un’omelia comprensiva di una toccante poesia di Gianni Rodari alternata a sacrosante riflessioni sulla considerazione in cui lo stato che trattiene metà dello stipendio lordo ai lavoratori della pubblica amministrazione tiene i docenti e gli operatori dell’istruzione (e del merito), dicevo quando un un genitore della sua ex quinta è salito sul pulpito (sempre che si chiami così la postazione da cui i preti officiano la messa) e ha fatto partire dallo smartphone una commovente lettera dedicata ai suoi bambini, registrata nell’auditorium del nostro istituto al termine dello spettacolo di fine anno, lo scorso giugno. Ogni quinta ha aderito a un laboratorio teatrale che ha previsto la messa in scena di una recita conclusiva, l’ultima settimana di scuola, che è stata l’occasione anche per un momento di commiato dopo i cinque anni trascorsi insieme.

L’impianto di amplificazione ha diffuso così lungo tutta la chiesa gremita di parenti, ex alunni, personale scolastico, famiglie e conoscenti, la voce della collega scomparsa. La cosa che mi ha colpito è stata la musica che si percepiva sotto la lettura. Già il fatto di aver scelto un background sonoro a corollario della declamazione di un saluto finale (e ripetuto durante il funerale, quindi doppiamente conclusivo) ne ha potenziato enormemente la portata emotiva. Un modesto e medio docente di scuola primaria avrebbe letto al pubblico e basta, in silenzio, senza il valore aggiunto della musica dai toni perfettamente adatti al contesto. Ed è proprio questo, il punto. Bastava prestare attenzione alla canzone sotto, lasciando scorrere il significato delle parole sopra, per cogliere nel brano scelto un plagio – tipico della musica copyright free che, ai tempi dell’intelligenza artificiale, è facilissimo trovare nel web – di “Fake Plastic Trees” dei Radiohead.

Rientrando a casa in macchina mi sono convinto però che non poteva essere come pensavo, e che per forza di cose doveva trattarsi di una falsa percezione, da parte mia. In una chiesa della periferia milanese, una di quelle costruzioni moderne solo cemento di edilizia sacra che tutto richiamano fuorché la religiosità, nel corso di una cerimonia funebre di una maestra ancora giovane ma già consumata da decenni di lavoro nella scuola, un lavoro svilito e malpagato, a sottolineare un involontario testamento all’ecosistema di cui faceva parte, per un caso fortuito – probabilmente forzato da chi ha effettuato in sua vece la ricerca in Internet di una canzone strumentale dai toni struggenti e evocativi – è stato riprodotto un evidente richiamo all’inno universale della finzione e della disperazione. Mi sono così affrettato a chiedere la riproduzione su Spotify di “Fake Plastic Trees” dei Radiohead utilizzando l’assistente Google – stavo guidando – ma, al posto della versione originale presente in The Bends, è partita la deludente versione live tratta da “2 Meter Sessions”.

black out

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Sono pochi i mestieri come il mio che, tra i rischi, comprendono la possibilità che un moccioso di sei anni ti vomiti sulle Camper scamosciate. Il fatto è che, per la prima volta da quando insegno, ho un bambino cinese con cui instaurare un rapporto normale, e per normale intendo che io parlo e lui mi risponde, oppure lui parla, io capisco e posso rispondergli. Mi spiace se avete intercettato una venatura di ottuso razzismo in quello che ho scritto, ma vi posso assicurare che le mie ragioni sono motivate e la provenienza (che poi sono tutti bambini italiani nati qui, fatti e finiti, ma lo sarebbero anche se non fossero nati qui, non vedo problemi) non c’entra un tubo. Due cicli fa c’era una ragazzina che praticava il mutismo selettivo, e io rientravo a pieno merito nella sua blacklist appartenendo alla categoria degli adulti non di famiglia con l’aggravante dell’autorità precostituita. Il ciclo scorso è stato quindi il turno di un bimbo ipoacusico, un po’ Asperger e tutto accartocciato nel suo mondo di numeri e forme geometriche. Mi manca molto, e sono sicuro che qualcosa delle nostre conversazioni strampalate e senza capo né coda sia rimasto anche a lui.

Quello di quest’anno è invece simpaticissimo e dolcissimo, anche se un po’ timido. Lui mi parla, io gli parlo, e insomma ci capiamo. Ieri, durante la merenda di metà mattinata, mi ha detto di accusare un po’ di mal di pancia, dopo pranzo. Gli ho proposto di chiamare a casa, ma ha preferito resistere. L’ho rassicurato chiedendogli di avvisarmi, nel caso il fastidio perdurasse. E così è stato. Pochi minuti dopo mi si è avvicinato – eravamo al centro della classe – ha biascicato qualcosa di cui, purtroppo, non ho colto granché.

Un’incomprensione che si è rivelata fatale. Ha riaperto bocca ma, questa volta, non per parlare. Ho fatto un balzo all’indietro ma non è stato sufficiente. Il vomito – poca roba, per lo più acqua, non so perché ma i bambini da quando si portano le borracce ecologiche a scuola bevono come dei cammelli, e la merendina appena consumata – si è distribuito democraticamente tra il suo zaino, il pavimento e le mie scarpe.

La procedura, quando un bimbo sta male, è quella di avvisare in segreteria in modo che la segreteria chiami uno dei genitori. Da più di una settimana, però, i telefoni degli uffici amministrativi sono guasti, come dicono loro. Chiami e ti dà sempre occupato. Non saprei dirvi se sia una cosa da nulla, una di quelle che si risolvono spegnendo e accendendo qualcosa, se qualcuno non ha pagato una bolletta o se il problema è invece serio. Il punto però è che in nessun’altra organizzazione, di qualunque settore o dimensione, sarebbe ammissibile un black-out dei telefoni di questa portata. Più di una settimana in cui un servizio (acquistato da un servizio pubblico) non funziona e nessuno è venuto a sistemarlo, sempre che qualcuno abbia chiamato l’assistenza.

giudizi in acrilico

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Ho un collega che non si ferma ad auspicare buon lavoro e buona serata in calce alle email. Per i destinatari della sue missive si espone direttamente a favore di un ottimo lavoro e di un’ottima serata. D’altronde sognare non costa nulla, e allora perché non farlo in grande? Perché non sperare il massimo per quelli come me? Mi è venuto il dubbio che, in conseguenza dell’ennesimo palla al centro dell’ennesimo ministro dell’istruzione, la restaurazione dei giudizi sintetici sia stata recepita con eccesso di zelo da parte del personale scolastico. Così mi sono chiesto se l’andamento del giorno in arrivo possa essere augurato lungo una scala che comprenda anche i valori da distinto in giù fino a gravemente insufficiente, livello a causa del quale l’oggetto di tale conferimento si veda costretto a ripetere la giornata da capo. Una bocciatura che ti fa rimanere in una sorta di loop da giorno della marmotta, fino a un giudizio migliore.

Ma a essere retrogradi, nella scuola, non c’è proprio gusto. Il terreno è fertile per i reazionari. Penso ai docenti che, per il diritto alla disconnessione, chiedono che non si mandino email al di fuori dell’orario di servizio. Che poi, quando sei in classe, le email mica puoi leggerle, quindi a pensarci troppo a come risolvere la questione finisce che il cervello ti va in corto circuito. So di colleghi che hanno scritto al presidente della Repubblica, a Zuckerberg e persino a Dio in persona per chiedergli di spegnere l’Internet durante il weekend per non essere disturbati e mischiare lavoro e vita privata, quindi in caso di black out della rete a partire da venerdì sera prossimo sapete con chi dovete prendervela. E i genitori non sono da meno. Lo scorso anno una mamma ha provato a mobilitare altre famiglie per imporre alla scuola in cui insegno di rimuovere gli access point dagli edifici scolastici. Non c’è da stupirsi se ora gli esponenti del pensiero unico, votati dagli elettori del pensiero unico, sostengono che lo smartphone, a scuola, sia da vietare. Privi degli access point e senza smartphone, sfrutteremo la funzione hotspot della fotocopiatrice di plesso o dei crocifissi.

zucchero filato

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Io che sono medaglia d’oro in gentilezza, avrete sicuramente seguito la mia avvincente finale alle olimpiadi di Parigi lo scorso agosto – proprio oggi sono stato ricevuto dal Presidente insieme agli altri azzurri, dicevo che io che sono medaglia d’oro in gentilezza ogni tanto mi prendo tre o quattro giorni di fila di cattivo umore. Faccio lo sgarbato e mi viene da litigare con tutti per certi motivi che dopo, quando riprendo gli allenamenti in vista del nuovo torneo di cordialità, giusto per usare un sinonimo suggerito dalla Treccani, non ricordo nemmeno più. Tempo fa una persona che rispetto molto per la sua determinazione ha pubblicato su un social una foto di sé mentre beve un drink e, nella didascalia, scriveva che ogni tanto le piace prendersi una pausa da se stessa. Ecco, non mi viene una battuta che descriva meglio quello che mi succede in momenti come questo. Anche a me piace cambiare registro, per un po’, anche solo per vedere l’effetto che fa. Ho persino sbottato con mia mamma novantenne perché sostiene che Milano sia una città piena di pericoli. Il fatto è che mica ci vive. Piuttosto, con lei la narrazione mainstream dei tg della Rai di questo periodo di pensiero unicista funziona alla grande. Mi sono indispettito perché non riuscivo a convincerla del contrario. Le dicevo che deve fidarsi di me che sono suo figlio e ci abito, e non di quello che passano in tv. Alla fine ha fatto finta di essersi convinta, ma ho capito benissimo che lo faceva per fare la pace. Poi mi ha guardato mentre si preparava il necessario per l’iniezione di insulina e ha persino detto che non vorrebbe mai essere interrogata da me. Allora ho riflettuto se è mai capitato che quei tre o quattro giorni di fila di cattivo umore che mi prendo ogni tanto siano mai coincisi con dei giorni di scuola, perché in genere sono di cattivo umore quando vado a trovarla ma non perché è lei, piuttosto perché quel posto lì, quello in cui abita e dove sono nato, quella casa sommersa di cose vecchie, malfunzionanti e superflue mi rende intrattabile. Il punto è che quel posto lì lo percepisce e fa di tutto per farmi capire che si è offeso. Interrompe autostrade quando mi metto in viaggio per raggiungerlo, crea code al casello al di là di ogni immaginazione, chiude per lavori il mio panettiere preferito e addirittura, era la vigilia di pasqua, mi ha bucato una gomma contro un marciapiede. Giuro. Va be’, lo ammetto, sono giorni che sono scontroso anche con i miei bambini, per questo lo scrivo qui, sperando di risalire alla causa di questa irrequietezza e tornare al momento prima per evitarlo, come è bene comportarsi. Oggi a malapena ho trattenuto un’espressione di disgusto perché una mia alunna ha portato a scuola i libri appena ritirati dalla cartoleria con le copertine di plastica tutte appiccicose e dall’inconfondibile odore di zucchero filato. Non capisco come sia possibile: i volumi di prima primaria di matematica, stampato e corsivo, persino le letture, scienze e storia. Tutti con la stessa fortissima puzza di dolciumi da luna park, per di più senza le etichette che così ho dovuto metterle io e scrivere il suo nome perché non è ancora capace. Cos’hanno fatto, a casa? Li hanno disposti in fila sul tavolo e poi ci hanno fatto merenda sopra? Quell’odore di zucchero filato è passato sulle mie mani e anche i libri dei compagni, a contatto con il suo nell’armadio di classe, domani non saranno da meno. Ma poi è finita che ho pensato che è una bambina, che ha genitori un po’ disattenti, che non è certo colpa sua che ha sei anni e che, anzi, forse a lei che ha appena cominciato la scuola primaria è un profumo che dà sicurezza. A suo modo una madeleine. Ed è un peccato che non sappiano ancora scrivere, a quell’età, davvero, perché ne uscirebbero storie mica male.