tappi

Standard

Non vi nascondo che da quando ascolto la KEXP anche a casa – mi sono dotato di un accrocchio bluetooth con cui connetto il pc allo stereo – metto molti meno dischi. Ho pensato addirittura di annullare l’abbonamento a Spotify – ho un amico musicista super professionista che lo considera il male assoluto – ma non dovete preoccuparvi, sto bene, l’idea è stata solo una questione di un attimo. È stato sufficiente constatare per l’ennesima volta la praticità delle playlist tematiche che allestisco prima di andare a correre a farmi desistere.

Il punto è che, abituati a certi standard di qualità della vita e alle comodità che comportano, è difficile tornare indietro. Riuscireste mai a fare a meno del vostro letto dopo averci dormito più di 50 anni? L’altra notte ho disteso le gambe sotto il piumone, in una duplice sensazione di confort provata grazie all’apparente paradosso dovuto alla freschezza del cotone in contrasto con le potenzialità del tepore che da lì a poco si sarebbe sviluppato, e ho pensato ai popoli che abitano le case sventrate dalla guerra che si vedono alla tv, un’immagine, anche in questo caso, evaporata dopo pochi secondi. Ero rientrato tardi, l’esposizione al freddo è stata una scelta e per nulla imposta da un esercito invasore, e mi sono addormentato senza alcuna difficoltà.

Quando poi mia moglie mi ha raggiunto a letto, non saprei dire quanto tempo fosse trascorso dal momento in cui mi ero coricato, mi sono svegliato da quel tipo di sonno che ci prende per primo – incerto ma allo stesso tempo decisivo, un’altra contraddizione – e quel repentino cambiamento di stato mi ha indotto a temere, per una manciata di istanti, di essere morto, un equivoco dovuto a qualche informazione che la mia mente in stand-by stava processando a mia insaputa. Ma poi, come al solito, mi sono ritrovato tutto intero e in carne e ossa, con il copripiumino a foglioline indaco e grigie addosso e la tapparella chiusa il giusto per lasciar trapelare un po’ della luce del lampione che sovrasta il parcheggio dietro casa su cui si affaccia la nostra camera da letto.

Un risveglio che ahimè si è rivelato fatale. Mia moglie è crollata come al solito e i suoi respiri, come accade spesso, hanno preso una brutta piega, dopo la quale non c’è stato verso di riaddormentarmi. Ma non è stata solo colpa del suo russare. Ero un po’ su di giri perché a cena – ho incontrato alcune persone con cui bevo una birra due sere l’anno – ero riuscito a non farmi tirare dentro in una discussione a tema politico. Mi sono trattenuto come mai successo credo in vita mia, una di quelle volte in cui la rabbia la fai brillare dentro per non farla scoppiare fuori proprio come quegli aggeggi che usano gli artificieri per contenere al mimino le esplosioni, e i postumi della deflagrazione a salve si sono fatti sentire proprio di notte, in quel frangente. Ho provato così l’espediente della KEXP in cuffia riprodotta sul telefono. Trasmettono da Seattle e, rispetto al nostro fuso orario, sono indietro di circa nove ore. Non c’era nessun programma notturno, per farla breve, ma la classifica dei 100 dischi più votati dagli ascoltatori della radio, un programma iniziato ore prima – ne avevo intercettato una parte in auto proprio mentre mi recavo a cena – e a quel punto restava veramente poco alla top ten. Malgrado le proposte non conciliassero affatto il sonno, sono comunque riuscito a riaddormentarmi e non so dirvi come sia finita. Ricordo solo di aver pensato che io, di dischi belli, quest’anno ne ho contati almeno una settantina, e che al risveglio li avrei scritti qui, subito dopo aver ordinato su Amazon i migliori tappi per l’isolamento acustico. 

Adrianne Lenker – Bright Future
Amaro Freitas – Y’Y
Berries – Berries
Beth Gibbons – Lives Outgrown
Black Ends – Psychotic Spew
Bodega – Our Brand Could Be Yr Life
Cassandra Jenkins – My Light, My Destroyer
Chelsea Wolfe – She Reaches Out To She Reaches Out To She
Clairo – Charm
Clearwater Swimmers – Clearwater Swimmers
Cola – The Gloss
English Teacher – This Could Be Texas
Ezra Collective – Dance, No One’s Watching
Fat Dog – Woof
Father John Misty – Mahashmashana
Fin Del Mundo – Hicimos Crecer Un Bosque
Folly Group – Down There!
Fontaines D.C. – Romance
Grandaddy – Blu Wav
Hana Vu – Romanticism
Hauspoints – Eel Feeling
High Vis – Guided Tour
Hildegard – Jour 1596
Honeyglaze – Real Deal
Ibibio Sound Machine – Pull The Rope
Idles – Tangk
Jessica Pratt – Here In The Pitch
Joan As Police Woman – Lemons, Limes And Orchids
Julia Holter – Something In The Room She Moves
Kaia Kater – Strange Medicine
Kamasi Washington – Fearless Movement
Kate Bollinger – Songs From A Thousand Frames Of Mind
Khruangbin – A La Sala
King Hannah – Big Swimmer
Little Simz – Drop 7
Loma – How Will I Live Without A Body?
Mabe Fratti – Sentir que no sabes
Magdalena Bay – Imaginal Disk
Mannequin Pussy – I Got Heaven
Mdou Moctar – Funeral For Justice
Merce Lemon – Watch Me Drive Them Dogs Wild
Mgmt – Loss Of Life
Mildlife – Chorus
Mj Lenderman – Manning Fireworks
Moor Mother – The Great Bailout
Nadine Shah – Filthy Underneath
Nia Archives – Silence Is Loud
Nilüfer Yanya – My Method Actor
Omni – Souvenir
Oum Shatt – Opt Out
Phantogram – Memory Of A Day
Pillow Queens – Name Your Sorrow
Plantoid – Terrapath
Porridge Radio – Clouds In The Sky They Will Always Be There For Me
Rosie Lowe – Lover, Other
Royel Otis – Pratts & Pain
Sleater-Kinney – Little Rope
Soccer Mommy – Evergreen
St. Vincent – All Born Screaming
Still House Plants – If I Don’t Make It, I Love U
Subsonica – Realtà Aumentata
The Cure – Songs Of A Lost World
The Last Dinner Party – Prelude To Ecstasy
The Smile – Wall Of Eyes
The Waeve – City Lights
Torres – What An Enormous Room
Twenty One Pilots – Clancy
Vampire Weekend – Only God Was Above Us
Waxahatchee – Tigers Blood
Yannis & The Yaw – Lagos Paris London
Yard Act – Where’s My Utopia?

prime

Standard

Ieri pomeriggio, nel corso delle due ore settimanali in cui insegno inglese in seconda C, è venuta fuori la questione Babbo Natale. Hanno sette anni, ci credono tutti e non c’è alcun bisogno di fornire prove documentate sul fatto che esista o meno. Nessuno di loro l’ha mai visto, qualcuno dice di sì ma mente sapendo di mentire, qualcun altro sostiene di aver intravisto una slitta parcheggiata sotto casa. Arianna, una delle più sveglie, ha addirittura chiesto a mamma e papà di visionare le immagini delle videocamere dell’impianto di antifurto domestico per coglierlo sul fatto ma i genitori – davvero geniali – le hanno dimostrato – non so come – che le riprese si sono interrotte proprio sul più bello, probabilmente a causa di qualche superpotere che gli consente di neutralizzare i sistemi di sorveglianza. Ho pensato a tutto questo potenziale sprecato, ma Babbo Natale rappresenta l’onestà per antonomasia e non ci possiamo fare nulla.

Una trovata che comunque ho avallato con convinzione. Anzi, il momento mi è sembrato propizio per verificare se tutti loro avessero sottoscritto con Babbo Natale l’abbonamento Prime, e, superato il primo momento di stupore, non è stato difficile convincerli sulla veridicità di quanto sostenessi. In comune con Amazon c’è anche il modo in cui sono organizzate le consegne. La slitta non può certo contenere i pacchi regalo per tutto il mondo, per questo Babbo Natale ottimizza i percorsi secondo le zone di residenza dei destinatari. Non solo. Babbo Natale Prime prevede il plus di un refill di dolci nei calzettoni vuoti lasciati appesi sul camino, proprio come quelli presenti nell’illustrazione dell’attività natalizia proposta dal nostro libro di testo di inglese che tutti, giustamente, hanno ricondotto alla festa della Befana (sanno benissimo comunque che le due multinazionali dell’e-commerce preferito dai bambini non sono affatto in concorrenza).

E se pensate che la mia giornata è proseguita poi con l’ultimo collegio docenti dell’anno, quello prenatalizio, potrete riconoscere quanto, quello del docente, sia un mestiere strano. Anche sottopagato, ma fondamentalmente strano. La maggior parte delle professioni si esercita fianco a fianco con i colleghi. Poi ci sono i lavori (pochi) che si fanno in solitudine (così sui due piedi mi vengono in mente appunto i corrieri di Amazon – quelli in carne sudamericana e ossa – e chi si occupa di pastorizia). I docenti sono nel mezzo, perché siamo tanti dipendenti della stessa organizzazione ma manca completamente lo spirito di squadra, non so se sia il termine più adatto. Intendo quella sorta di intesa che ti spinge a fermarti a fine giornata lavorativa a prendere un aperitivo insieme o al limite quell’aziendalismo sincero o interessato che ti convince di fare parte di una famiglia, che poi in realtà la famiglia è quella dei proprietari dell’azienda che diventano ricchi grazie al tuo aziendalismo sincero o interessato.

Durante il collegio docenti prenatalizio non ci sono regali di natale ai dipendenti e nemmeno il catering con il rinfresco. I dirigenti più illuminati danno alle collaboratrici i soldi per andare a comprare qualche panettone o pandoro, due bocce di prosecco e la Pepsi per gli astemi, da consumare durante il brindisi al termine della riunione. Ma in realtà, avallato anche l’ultimo punto all’ordine del giorno, tutti si affrettano a tornare dalle rispettive famiglie. Anche i colleghi più giovani, quelli che nelle aziende degli altri settori considerano il posto di lavoro anche un ambiente di caccia, sbocconcellano una fetta di dolce parlando dell’ultima nota che hanno dato e poi se ne vanno quasi senza salutare. La triangolazione con il resto della popolazione scolastica, in primis gli alunni, frena un po’ l’impeto alla socializzazione sul lavoro quando non si parla di lavoro – per non dire che è un deterrente all’accoppiamento – ed è un peccato. Questa granularità di rapporti umani – passatemi il termine – penalizza la scuola tanto quanto l’assenza di reti di rappresentanza e di marketing di sé fatto con criterio, a partire dalla quasi totale latitanza di insegnanti su LinkedIn. Sarebbe bello un Tinder da intellettuali e pedagogisti esclusivo per i docenti, ma anche lì occorrerebbe un sistema di filtro per evitare ogni tipo di ingerenza dei genitori, nel bene o nel male.

elephant

Standard

Dallo scorso venerdì insegno cultura digitale e fondamenti di informatica a ventisei tra studentesse e studenti della secondaria di primo grado del mio comprensivo. Si tratta di un corso pomeridiano finanziato grazie ai fondi del PNRR dedicati alla formazione inclusiva sulle competenze di base e che durerà fino a maggio, due ore la settimana. Le ragazze e i ragazzi sono lì per scelta, magari non proprio tutti, e il primo incontro è andato nel migliore dei modi. Tra gli obiettivi c’è anche il fornire una preparazione propedeutica al successivo conseguimento della certificazione ICDL. Quando ho introdotto la questione, a inizio lezione, qualcuno si è precipitato immediatamente a googlare il significato dell’acronimo, facendo piombare di colpo l’intera classe alla fine degli anni novanta.

Inutile dirvi che ho sfruttato a pieno la ghiotta occasione. Per un’ora o poco più ho provato nuovamente l’ebbrezza di sentirmi addosso tutti i capelli e tutti neri, liberato da quei dieci kg in eccesso – a essere ottimisti – che mi hanno reso ostile a più di un capo d’abbigliamento che tutt’ora faccio fatica a buttare tanto gli sono affezionato, ritrovando persino quella indimenticata forma e prestanza fisica da trentenne che mi consentiva di superare ogni limite, a partire dall’applicare tutte quelle competenze descritte dalla certificazione ICDL sul posto di lavoro di allora – facevo il programmatore – per quasi 48 ore di fila – e di file, perdonate il gioco di parole – senza dormire.

Ho approfittato così dell’inaspettato varco spazio-temporale che ha inghiottito me e le ragazze e i ragazzi partecipanti al corso per introdurre la lezione con i due video che uso come best practice dell’impiego del deepfake e dell’AI al servizio della creatività umana. C’è stato non poco scetticismo a fronte dei 4:33 di “Yellow” dei Coldplay, le story dei social su cui la generazione zeta misura la scansione della vita durano molto ma molto meno, così mi sono limitato alla prima strofa e ritornello, tanto la faccenda non cambia. La successiva proiezione di “Grace” degli Idles però li ha lasciati di stucco, mai mi sarei aspettato una reazione così wow, da parte loro. Nessuno conosceva la canzone, tantomeno uno dei migliori album usciti quest’anno, per non parlare della band, a quell’età non ascoltano certo la musica di noi vecchi né seguono XFactor. Qualcuno però aveva già sentito e visto Chris Martin e soci. Un ragazzo di terza ha sostenuto addirittura che sua madre sfoggiasse il testo della canzone tatuato sul corpo, peccato non avergli chiesto dove e con quale font (sicuramente in corsivo, un must delle indelebili citazioni a cazzo sulla epidermide).

Il corso di cultura digitale conferma il fascino che il mese di dicembre esercita su tutta la popolazione scolastica. Io l’ho presa con grande entusiasmo, ci voleva dopo settimane di cinque e seienni che si cagano ancora addosso. Non solo. I miei bambini, tra addobbi, calendari dell’avvento e i lavoretti tipici del suprematismo bianco e cattolico, sono fuori dalla grazia di dio e non vi sto a descrivere la reazione delle mie colleghe alla nuova fotocopiatrice di plesso, una tappa del percorso di trasformazione digitale in potenza ma che invece – tanto quanto l’ICDL – ha costituito un passo tecnologico all’indietro. La mia scuola ha cambiato finalmente fornitore ma la sostanza non cambia. Ci hanno rifilato un modello di fascia piuttosto economica. Tanto per cominciare è privo del wi-fi, per fortuna mi era rimasta una vecchia chiavetta USB, anch’essa della preistoria, uno di quegli accrocchi in grado di connettere alla intranet anche i morti. Poi, a differenza della stampante ormai alla frutta di cui disponevamo prima, è sprovvista di un sistema di job accounting nativo per impostare utenze e relativi valori di utilizzo, a meno dell’installazione di una periferica aggiuntiva per la lettura di badge, una delle tante spese su cui la DSGA non scende a compromessi. Il destino delle foreste amazzoniche del pianeta, già a partire da queste settimane prefestive ricche di renne e slitte da stampare, è purtroppo segnato.

Anche Jacopo, il bambino di quarta che io chiamo “Elephant” – proprio come il film di Gus Van Sant perché il rischio che, raggiunta l’adolescenza, si presenti a scuola con un borsone traboccante di AK-47 e munizioni compatibili, non è così campato in aria – è in fibrillazione per le feste imminenti. Da quando l’ho trascinato fuori a forza dalla mia prima, dopo che aveva lanciato una bottiglia da due litri piena d’acqua in classe per colpirmi perché poco prima l’avevo contenuto per consentire alle collaboratrici che voleva menare di mettersi in salvo uscendo dal bagno centrando invece una delle mie alunne più delicate, finalmente mi evita come la peste. Un episodio che rischia di essere frainteso come una buona notizia ma, se leggete tra queste righe, riconoscerete il fallimento didattico e sociale della scuola, nel senso dell’istituzione ma anche un po’ della mia in cui io faccio la mia parte, trascinando a forza un bambino di nove anni e contribuendo quindi alla resa incondizionata alle complessità. Agendo da uomo, come ha detto la mia dirigente, comportamento che ho impiegato tutta una vita a disimparare.

La scuola è il vero elemento con disabilità, in questa storia, e non è facile trovare una soluzione. Quando Jacopo ha spalancato la porta per scagliare dentro quella molotov disinnescata, con il cappuccio della felpa sulla testa come nei video dei rapper bianchi che scimmiottano i maestri afroamericani, mi è sembrato proprio il figlio di un trumpiano. Qualche settimana dopo il fattaccio, mi sono trattenuto all’uscita perché ho notato la mamma di Jacopo assalire a male parole la collega di sostegno che se ne prende cura per ventidue ore la settimana, una cosiddetta copertura totale ma dalle crisi di rabbia del bambino, a differenza mia e di tutti gli altri inquilini della primaria in cui insegno, semplici e casuali comparse della sua vita, come la collega che è stata sfiorata per un pelo dal cuscino dell’aula di psicomotricità che Jacopo ha lanciato giù dalla tromba delle scale. La mamma di Jacopo era molto risentita, mi è sembrato addirittura che dicesse “belle cose che insegnate a scuola”, ma posso essermi sbagliato. Comunque, di fronte a quella scena, ho pensato una cosa molto populista che mette in stretta relazione il RAL di noi insegnanti pubblici con quello che facciamo, cose che vanno dallo schivare bottiglie da due litri d’acqua a ingegnarsi per mettere in rete una stampante spacciata per modello di ultima generazione.

il gioco si fa duro

Standard

Se prendete la metro a Milano in questi giorni noterete – io l’ho vista in tutte le stazioni in cui sono passato, probabilmente a causa della concomitanza con le festività e la conseguente corsa ai regali – la gigantesca pubblicità di una poltrona da gaming. Mi sono chiesto il senso dell’esistenza di un arredo così impattante sul design di interni di qualsiasi appartamento – oggettivamente kitsch – dedicato a un passatempo da ragazzini delle medie, non che i ragazzini delle medie non possano ricoprire un ruolo così centrale in una famiglia da non pretendere una sedia tutta per loro, pensata per un’attività di questo tipo. Io allora potrei voler avere una chaise longue da blog, per dire, un hobby altrettanto adolescenziale. Una poltrona che non lascerei a nessuno, tantomeno alla mia gatta, considerando che ha dei modi di ricordarmi di pulire la lettiera che, tra gli esseri umani, solo la ndrangheta o al limite i Blues Brothers.

Cari genitori, avete capito: questo post è dedicato a voi. Non è proprio il caso di spendere e spandere per un arredo così ingombrante e che per giunta i vostri figli, una volta cresciuti, non utilizzeranno più. I ragazzini smettono presto con le console e i videogiochi, non appena scoprono i passatempi da adulti, e non mi riferisco solo al sesso o alle canne. Vi ritroverete a breve con una sedia orrenda – impresentabile in qualunque stanza della vostra casa – che metterete su Vinted il natale prossimo. Tanto di cappello, comunque, all’azienda che commercializza articoli così di nicchia – il mercato dei videogame non è per nulla rilevante, da quanto mi risulta – e che si è potuta permettere una copertura pubblicitaria di così alto profilo. Per farvi capire il livello, i cartelloni si alternavano ad altri pezzi grossi del marketing da metropolitana del calibro dell’Università Cattolica che, in quanto a opulenza, non è seconda a nessuno.

Peraltro, l’invenzione di una poltrona per giocare ai videogiochi, un prodotto che concentra in sé l’idea di un modo per buttare via il proprio tempo malsano e per deprivati, unita alla ricerca della comodità estrema attraverso posture deleterie per la salute, è in palese contraddizione con l’attitudine al movimento e pratica sportiva che contraddistingue i nostri ragazzi. Non si spiegherebbe altrimenti la diffusione, tra le nuove generazioni, dell’abbigliamento tecnico anche fuori contesto. Se vi guardate intorno, la maggior parte dei giovani – e non solo i maranza – indossa tute da allenamento nelle diverse varianti per le più comuni situazioni (appuntamento galante, giorno di scuola, pomeriggio in piazza del Duomo e notte di capodanno) abbinate a scarpe in gomma dai colori sempre più vistosi. L’impressione è che i nostri ragazzi si vestano da educazione motoria per farsi trovare pronti ad ogni sfida improvvisa: una corsa, un salto, un gesto atletico, un combattimento, tutte prove impossibili da affrontare – e superare – con addosso un pantalone di velluto, un pullover o un paio di Clarks. Com’è possibile che il marketing abbia frainteso con proposte così fuori luogo gli ideali di una generazione? Come riuscite a immaginare i ragazzi di oggi stravaccati tutto il giorno davanti a uno schermo a millanta pollici, a sparare a nemici digitali o a far rincorrere la palla a calciatori antropomorfi pilotati da joystick? In ogni caso, la nostra società non corre nessun rischio di adolescentizzazione. Avete mai conosciuto un adulto che preferisca Candy Crush alla lettura di un buon libro?

capolinea

Standard

Il valore degli immobili fa un bel balzo in avanti quando la fortuna, acquisite le sembianze di una fermata della metro, si scomoda fino alla periferia della terra e va a baciare sulla bocca i loro proprietari. Comasina è il capolinea della linea gialla, la M3, e sorge in un territorio che, una volta, era tutta vallanzasca. Le cose, da allora, sono cambiate così tanto che ora hanno persino allestito un’installazione pop up con il nome del quartiere nel bel mezzo della rotonda di fronte alla fermata, con un bel font Hollywood che trasmette il senso del sogno che si vive abitando qui. Per farvi capire, in Comasina hanno addirittura ambientato un episodio di “Casa a prima vista” e, potrei sbagliarmi, ma l’appartamento in una delle vie parallele alla strada principale, quella che poi si allontana verso nord, è risultato quello vincente.

Casa mia dista dal capolinea della gialla due km tondi tondi, e per me risulta il mezzo più comodo quando devo andare in centro. La maggior parte delle volte mi armo di calma e auricolari per la musica e ci vado addirittura a piedi. Prendere l’auto è fuori discussione: tutti i parcheggi nei pressi della fermata sono a pagamento, il che rende la scelta di non raggiungere Milano con mezzi propri per nulla conveniente. C’è un autobus che collega Comasina con il paese dove vivo ma passa ogni mezz’ora e, soprattutto nelle ore di punta, ci impiega troppo tempo. Farsela a piedi poi soddisfa una delle mie più audaci perversioni che è quella di camminare in luoghi di periferia pensati solo per il transito di automezzi. Ma non sono pochi gli scorci a ridosso delle metropoli che invece sembra che nessuno abbia progettato. Sono sorti per caso, come risulta tra grandi interventi prossimi tra di loro ma non perfettamente combacianti, o anche saltati fuori per sottrazione, non so se rendo l’idea.

A poche centinaia di metri dal capolinea della gialla sorge un locale a dir poco equivoco. Si chiama “Sauna Milano Relax” e, dall’esterno, si riconosce per certe gigantografie all’ingresso che non lasciano spazio all’immaginazione sul tipo di trattamenti offerti. Di fronte c’è un bar sudamericano da cui risuona cumbia a tutte le ore, e, poco dopo, un ristorante che cucina un kebab decisamente di qualità ma che è penalizzato da un odore di cibo insostenibile. Al massimo va bene per un take away, una sosta veloce che consenta di salvare i vestiti, ma soprattutto ci si chiede chi mai verrebbe a mangiare in un posto così fuori mano.

Il punto è che la fermata della metro Comasina è frequentatissima a qualunque ora, lungo l’intero orario di servizio della metro che, fosse per me, dovrebbe funzionare tutta la notte, se considerate il via vai di gente che si sposta tra centro e periferia. Intorno alle rampe di scale che scendono ai treni c’è un’umanità multietnica che non ha confronti. La mattina presto, la stazione è presa d’assalto da furgoncini – tutti parcheggiati in seconda fila – che, in stile capolarato da campi di pomodori del sud, raccolgono le maestranze dell’edilizia da smistare verso i numerosissimi cantieri dell’hinterland che si sono centuplicati grazie al bonus negli ultimi due anni. Non mancano i venditori ambulanti di merce contraffatta e un dignitosissimo fiorista cingalese che allestisce, ogni giorno, la sua bancarella super-attrezzata. Ogni tanto risuona l’eco di qualche accenno di rissa, con dialetti meridionali che si mischiano con rabbia a idiomi arabi e africani, e a farne le spese spesso sono le bici che qualcuno ancora si ostina a legare ai pali a ridosso del bar tabacchi a gestione cinese, crocevia di tutta la fauna che gravita in quel luogo di transito.

Alla domenica, verso l’ora di pranzo, i treni della metropolitana però sfornano centinaia di persone di tutte le nazionalità che hanno accettato un invito da parenti e amici che vivono da queste parti. Si possono incontrare bambine orientali vestite a festa, coppie multietniche che procedono tenendosi per mano e reggendo con l’altra un vassoio di qualche profumatissima prelibatezza d’oltreoceano, praticanti di improbabili derivazioni di chiese dai nomi esotici vestiti di tutto punto che amano farsi trovare eleganti all’appuntamento con il rito, persino qualche fattone che rientra a casa dopo un rave party tenutosi chissà dove.

Mi reco in Comasina quasi ogni giorno per accompagnare in auto mia figlia a prendere la metro per andare a scuola, fino a un paio di anni fa, e ora a lezione all’università. Osserviamo insieme, in coda tra tutti gli altri che raggiungono la fermata per lo stesso motivo, quella sintesi di mondo che si raduna lì senza coglierne la vera essenza. Aspettiamo il momento più adatto, poi lei scende, mi saluta, quindi chiude la portiera con una forza sovradimensionata per la prestazione che quel gesto comporterebbe. Ogni volta cerco di segnarmi in qualche modo di parlarle per chiederle di usare un po’ più di gentilezza nei confronti della macchina di famiglia, ma poi finisce che mi scordo sempre. Proseguo fino alla rotonda con la scritta Comasina, la percorro per intero e mi dirigo verso casa, riflettendo su considerazioni come queste.

i really never can say g……

Standard

Quindi davvero Gloria Gaynor non riusciva mai a dire goodbye

area c

Standard

Con il solito gesto ho invitato il pubblico a smorzare gli applausi al termine della mia performance, cosa che faccio sempre – giunti alla replica numero 1541 del mio monologo dovreste saperlo – per ringraziare tutti e per sottolineare proprio che quella a cui avevano appena assistito era la replica numero 1541 del mio monologo, ma questa volta mi sono superato. Ho puntato l’indice verso il signore anziano seduto nella fila D, posto 21, l’ho guardato nel modo in cui si scrutano gli spettatori durante la recitazione ma, a differenza del non-messaggio che trasmetto durante lo spettacolo, ho parlato e gli ho detto che mi ero accorto che, a nemmeno una ventina di minuti dall’inizio, aveva subito un colpo di sonno. Nella fila davanti a lui sedevano un gruppetto di colleghi – gente che paga fior di quattrini per i corsi di teatro e che viene ai miei spettacoli per imparare qualcosa di più – e poco più indietro ho riconosciuto quella bella signora alta con i capelli rossi, quella che poco prima che si spegnessero le luci raccontava l’esperienza della figlia alla scuola di musica, l’entusiasmo delle lezioni di esecuzione di insieme e il divertimento di vederla suonare in prova un improbabile adattamento per ragazzini alle prime armi di “Acida” dei Prozac+. Una replica apparentemente di ordinaria amministrazione: le luci si sono spente, si è spalancato il sipario, i fari sulla sedia nera, unico arredo di scena, e poi il mio corpo, la mia voce, i miei sguardi, i miei movimenti. Questa volta, con una variante: quel vecchio vestito male, in mezzo ai soliti abbonati dell’area C, a cui è crollata la testa in avanti proprio mentre mi trovavo alle prese del passaggio più drammatico, quello della morte di Lisetta. Il brivido si è irradiato lungo la platea proprio come quella volta in cui ho visto l’onda del terremoto attraversare il lato lungo del living rettangolare dell’appartamento in cui ho abitato tanto tempo fa. La scossa si è propagata, nell’ordine, dalla porta del balcone al tavolo della cucina, poi ha attraversato me – ero seduto al computer, tanto per cambiare – e quindi si è dileguata verso la casa dei vicini. Così, a spettacolo concluso e applausi scemati, quel vecchio si è avvicinato all’orecchio della signora che sedeva al suo fianco – sua moglie? – e l’ho sentito, è stato sufficiente il labiale, sussurrare qualcosa che aveva a che fare con la quarta parete e una commedia di Plauto al liceo, quando uno dei protagonisti aveva fermato lo spettacolo per lamentarsi del chiasso che quel gruppetto di deficienti ignoranti bifolchi conciati come i Cure stavano facendo. “Stiamo lavorando”, il soldato fanfarone aveva gridato dal palcoscenico, “meritiamo più rispetto”.

un po’ di male nel bene e viceversa

Standard

La mamma di Nicholas sfoggia lunghissime e vistose unghie a colori alternati: bianche con inserti tondi neri e nere con inserti tondi bianchi. Una scelta che sarà simbolo di armonia ed equilibrio tra le dualità dell’universo, nonché di interazione tra le energie antitetiche, quella positiva contro quella negativa e passiva, ma che al lato pratico le crea enormi difficoltà nel digitare la nuova password del suo account Google scolastico e dimostrarmi che c’è qualcosa nel suo smartphone che non va, d’altronde touchscreen e onicotecnica da sempre non sono compatibili. L’impatto tra le due forze si manifesta comunque sul tempo extra non pagato in cui devo fermarmi a scuola per quel tipo di assistenza tecnologica, così un po’ invidioso del suo telefono da mille e passa euro (un mese del mio stipendio) mi limito a suggerirle, la prossima volta, di acquistare un Android.

Non aggiungo che la resilienza di cui ci riempiamo la bocca e che va tanto di moda, vista da vicino, è un disvalore, una posa che ci impedisce di agire la vera rottura che poi è il break-even point in cui mandiamo affanculo tutto e tutti, ma in questi tempi di sovranismi non è il caso. I genitori che ci vengono a incontrare in prima sono comunque molto carini e ingenui. Chiedono più compiti – con figli in alcuni casi di nemmeno sei anni – e li crescono a merende bio in confezioni che si aprono solo con le forbici. L’intervallo lo perdo a tentare di strappare materiale di nuova generazione, probabilmente alieno, così dirotto quei mocciosi, a cui ancora un paio di anni all’infanzia avrebbero fatto più che bene, all’impiego del materiale scolastico di cui sono dotati. E non è tanto il problema che non sanno allacciarsi le scarpe, che si mettono i piumini al contrario, che non riescono a chiudere le zip, che non hanno forza sufficiente nelle mani per stringere il meccanismo che libera le fibbie degli zaini. È che qualcuno se la fa addosso, nel senso della cacca.

Nel migliore dei casi nei pantaloni in classe, nel peggiore cercando di risolvere l’impasse in bagno, perché poi sono cazzi delle collaboratrici sistemare le cose, e se si rifiutano potete stampare come ho fatto io la pagina del CCNL e evidenziare in rosa il passaggio in cui, non è scritto proprio così, spetta a loro prestare assistenza in queste situazioni di merda. Quando invece capita durante la lezione colgo immediatamente le avvisaglie di ciò che sta accadendo e mi blocco, talvolta sul più bello di un intervento appassionante, talaltra nel corso di una spiegazione di quelle che sono certo faranno la storia e che i miei alunni si porteranno dentro, per sempre, nella vita. Tutto ciò che mi circonda svanisce. I bambini, la LIM accesa, la collega di sostegno, i banchi, le pale sul soffitto. Tutto ciò che mi circonda svanisce, guardo nel nulla come certi ACD che hanno l’interruttore on/off. Mi spengo mentre la realtà continua il suo corso, cado in trance e penso: che cosa ci faccio io qui?

amici di scuola

Standard

La cassiera dell’Esselunga che mi ha servito mi ha confidato che l’anziano dimesso che mi si è avvicinato mentre infilavo la spesa nelle borse è una vecchia conoscenza del supermercato. Abita nei pressi, viene a piedi – e, visto il suo stato confusionale, meno male – e gli piace pontificare con i suoi coetanei, ed è per quello che ieri ha scelto me. Il tema dei monologhi si riconduce a un thread consolidato, un classico della letteratura da bar, ma il suo discutibile senso della realtà lo porta a mettere in relazione due aspetti antitetici: l’evasione fiscale che genera lo squilibrio di contribuzione alla spesa pubblica tra chi paga tutte le tasse e chi no, con i comunisti americani che dovrebbero prenderselo nel culo tutti perché pretendono di controllare nelle tasche della gente che poi, appunto, vota Trump, con l’aggravante dell’auto-dichiarazione delle proprie origini meridionali, come se l’accento – e l’ubicazione stessa del supermercato, un quartiere periferico costruito per favorire l’accoglienza dell’immigrazione dal sud negli anni 60 e 70 – impedisse di capirlo. A me basta che la coppia di albanesi che mi ha preceduto alla cassa, probabilmente ancora priva di figli in età scolare, mi abbia regalato i buoni ottenuti grazie a un budget ampiamente al di sopra della mia portata. Mi hanno lanciato uno sguardo di intesa, caricando il loro carrello pieno di prodotti industriali, e non c’è nemmeno stato il bisogno di chiedermelo. Ho detto che faccio l’insegnante e con i buoni della campagna “Amici di scuola” ci compriamo i computer.

Un bel mazzetto, che poi ho unito a miei, molti meno. Al “terronazzo” – è stato lui ad autodefinirsi così – invece gli avrei voluto mostrare la mia collezione di foto che custodisco sullo smartphone. Tutta la gente che vedo estrarre rotoli di banconote da cinquanta, cento e duecento euro e pagare la spesa in contanti. Da dove crede che vengano tutti quei soldi? Io sono uno di quelli che non gira nemmeno con i 50 centesimi per il carrello. Se sono fortunato becco l’addetto alla raccolta e me ne faccio sbloccare uno. Nelle giornate no, vado al punto informazioni e chiedo in prestito una moneta. Ci sono sempre impiegate diverse ed è per questo che, non ricordandosi di me, si raccomandano che, una volta caricata la spesa in macchina e riposto il carrello, la restituisca, e questa cosa la prendo sempre un po’ sul personale. Anni fa sfoggiavo un praticissimo tondino di plastica – un gadget rubato in un centro commerciale a Berlino – delle dimensioni perfette, peccato che poi l’ho dimenticato in un carrello. Se si fosse trattato di una moneta, vi assicuro che non sarebbe mai successo.

istruzione e merit

Standard

Alla fine sembra che Parthenope fumi quasi più di Berlinguer, anche se del compiantissimo segretario del PCI si notano molti più pacchetti ancora sigillati. Due differenti approcci al tabagismo che, purtroppo, sottendono una componente decisamente sessista. I comunisti fumano in quanto intellettuali, le loro sigarette contribuiscono a mettere per iscritto ideali, strategie, visioni, e le sedi di partito immerse nella nebbia che ovatta persino il rumore delle macchine da scrivere trasmettono la visione romantica dell’abnegazione civile che anni di reti Mediaset, grillismo e nazifascismo melonista hanno spazzato via. Il fumo delle dee nate in acqua invece costituisce un valore aggiunto al desiderio che la bellezza ispira nel prossimo e alla sensualità femminile, e una laurea in antropologia (attenzione spoilerissimo) con il massimo dei voti, alla fine, risulta un di cui. Mi chiedo solo se Paolo Sorrentino avesse in testa l’idea di Stefania Sandrelli come volto e corpo perfetto per interpretare la Napoli del 2024 e quindi abbia setacciato le agenzie alla ricerca dell’attrice più somigliante alla sua versione da giovane, che poi sarebbe stata Amanda Sandrelli, o viceversa. Di certo, il gesto indotto dalla memoria muscolare all’uscita dalla sala, a seguito della visione di entrambi i film, è quello di tastarsi il taschino della giacca alla ricerca di un pacchetto.

Il connubio tra tabacco e politica nel mio caso si è consumato proprio nel corso di una manifestazione di piazza contro il primo governo Berlusconi. Rammento perfettamente l’istante: era il 12 novembre 1994, e a nemmeno metà percorso del corteo di protesta contro la legge finanziaria ho estratto le Winston dal mio parka ma, anziché accendermi l’ennesima sigaretta, ho gettato il pacchetto ancora pieno in un cestino della spazzatura a lato della strada. Avevo iniziato sottraendo le Milde Sorte dalla borsetta di mia mamma in seconda media, circa quindici anni prima, e da allora non avevo mai smesso. Ho persino toccato punte di due pacchetti al giorno ai tempi dell’università. Prendevo il locale per Genova alle 7.01, rigorosamente nel vagone fumatori, e mi fumavo la prima, facile fare il calcolo fino a notte inoltrata nei bar del centro storico. Si poteva fumare ovunque tranne al cinema, ma mia mamma ricorda l’aria irrespirabile durante i film a cui assisteva con l’uomo che poi sarebbe diventato mio papà, da fidanzati.

Da quella manifestazione non ho mai più fumato sigarette con continuità. Mia moglie ed io le compriamo quando siamo in vacanza perché fumare in estate, usciti dall’acqua o al ristorante all’aperto di sera con il vino bianco fresco, è un cliché da cui non vogliamo esimerci. Non solo. Scrocco una Camel blu alla mia collega di sostegno ogni lunedì, al termine delle lezioni pomeridiane e prima della programmazione. Mi unisco al gruppetto di insegnanti fumatori più o meno accaniti e, tra un tiro e l’altro, ascolto i racconti quotidiani sull’andamento delle classi. Raramente intervengo perché un po’ mi gira sempre la testa, quando fumo, e ho paura di biascicare con la voce. Dopo un po’ di sigarette offerte però acquisto un pacchetto e lo offro in dono alla collega. La prima volta un po’ si è offesa ma poi ha compreso il senso del mio gesto – mi fa sentire meno un peso per il prossimo – e accetta le sigarette con un sorriso.