out of office

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Se al rientro dal weekend di carnevale la scuola è praticamente finita, a Pasqua e pasquetta, se non fosse che piove sempre – tranne quando siamo costretti in casa per un lockdown – possiamo considerarci già in piene ferie di agosto. Ho allestito un calendario per organizzare al meglio le ultime attività da svolgere con i bambini e lo slalom tra progetti e gite, se fossi uno che patisce il mal d’auto, mi avrebbe esposto a serio rischio sbocco sul file di Google Fogli su cui lo ho preparato. Ho piazzato le ultime esercitazioni (guai a chiamarle verifiche) decisive per tirare le somme dei cinque anni di matematica e, nella manciata di minuti che mi è rimasta libera da qui a giugno, ci infilerò tutto il resto.

Nel corso di formazione che sto tenendo in queste settimane ai miei colleghi, previsto dalle azioni di coinvolgimento degli animatori digitali all’interno del PNRR, ho insegnato ai colleghi a mettere l’out of office con GMail. La tentazione di inviare gli auguri di buona pasqua a tutta la lista per verificare chi ha avuto davvero il coraggio di impostarlo sul serio – la mia era una ironica provocazione – è forte. Le persone che non hanno a cuore la scuola italiana sostengono che, per noi docenti, un risponditore automatico non occorre, intanto perché siamo sempre in ferie e poi perché sarebbe l’unica occasione in cui rispondiamo al mittente come si fa negli uffici seri, cioè appena riceviamo l’email. Invece vi posso assicurare che siamo in tanti a rispondere all’istante come si fa negli uffici seri, soprattutto proprio quando qualcuno – di norma la docente di religione, sicuramente la più coinvolta dalla cosa e la più autorevole nel settore – invia gli auguri a tutti, corredati da gif o immagini in stile buongiornissimo!!1! kaffeeee?? sui gruppi di paese su Facebook, non so se ho reso l’idea. La casella di posta immediatamente si satura di una pioggia di ringraziamenti e saluti incrociati, in un tripudio a metà tra il boomerismo e quel modo di essere digitali tipico degli insegnanti.

In realtà a me spiace non poter salutare tutti, l’ultimo giorno prima delle pause più lunghe. Quando lavoravo in agenzia, l’ultimo giorno, con quello stato d’animo (inesistente altrove in natura) di stupore per l’eccezionalità di non doversi recare al lavoro il giorno dopo e quelli successivi per un causa indipendente dalla propria volontà (la chiusura decisa dall’azienda stessa), alle 18 mi lanciavo in un tour delle postazioni per lasciare il mio arrivederci a dopo le vacanze. Ma eravamo in trenta persone, e con un paio di saluti generici mi era possibile raggiungere tutti.

A scuola questo è impossibile. Siamo cinque volte tanto, distribuiti in più plessi e, nello stesso edificio, su più piani e, ancora, in aule separate e talvolta con le porte chiuse, nel segreto del nostro metodo pedagogico. Un tour di tutto il comprensivo mi esporrebbe alla preoccupazione plenaria sul mio stato di salute mentale. Chi mai lo farebbe? E poi, a dirla tutta, mi sa che domani faccio un salto, tanto le collaboratrici ci sono. Devo sgomberare un magazzino che diventerà un nuovo laboratorio e vorrei installare ChromeOS Flex per recuperare un paio di catorci che, all’ennesimo aggiornamento Windows, non danno più segni di vita. A scuola, volendo, c’è sempre da fare ma non prendetemi per uno di quelli malati di zelo. Mi piace l’atmosfera che si crea nelle aule e nei corridoi durante i giorni di chiusura. Il tempio dell’istruzione svuotato della sua materia prima. Una sensazione che non ha nulla a che vedere con l’andare in ufficio il sabato o la domenica perché c’è una scadenza da rispettare. Quante volte mi è successo. Ecco, a scuola non ci sono scadenze da rispettare, o meglio, non di quel tipo che intendete voi. Si fa sempre tutto tutti insieme e, proprio come in classe, il primo aspetta l’ultimo. E, se nell’attesa si annoia, c’è sempre una cornicetta da disegnare e colorare, per abbellire il foglio.

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